Luciano Ponzio
VISIONE, DE-SCRITTURA, ALTERITA'
Tre tesi su arte e vita
"L'idea di una pittura universale, di una
totalizzazione della pittura, di
una pittura totalmente realizzata,
è un'idea senza senso.
Durasse ancora milioni d'anni, il mondo, per
i pittori, se ne resteranno,
sarà ancora da dipingere, finirà
senza essere stato conquistato"
(M. Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito)
La visione / lo sguardo
"Io guardo, e guardare" scrive Bataille
"richiede la mia presenza pietrificata in questo punto del mondo e la mia
condizione di uomo riporta ognuna delle verità sensibili da me riconosciute
all'errore del suolo fisso, all'illusione di un fondamento immutabile".
Lo "sguardo" riproduce l'"immagine intellettualizzata
del mondo" (G. Bataille) e tende a "identificare", "nominare",
"pietrificare", "mortificare" l'oggetto in un determinato,
in un pre-scritto e, pur sempre, riduttivo contesto: "l'errore del suolo
fisso".
Guardare significherebbe non riuscire a vedere un abbaglio
dovuto proprio a questo accanirsi a "far luce" nient'altro che l'oggetto
inserito e sommerso nel "monotono ordinamento degli utensili", procurandosi
di conseguenza una sorta di cecità nei confronti di una caratteristica
eccedente dei segni (cioè la loro valenza iconica nell'accezione di Peirce)
per la quale il loro senso e valore restano autonomi e irriducibili alla rappresentazione
che ne abbiamo, all'interpretazione che ne diamo e alla "realtà"
a cui stabiliamo di assegnarli.
Sottrarre "l'oggetto al mondo delle cose", al mondo
già dato, significa de-responsabilizzare l'opera artistica dall'obbligo
di "valutare oggetti" definendoli e afferrandoli concettualmente sulla
tela.
I contenuti di questa vita sono "la carità che si
offre all'artista" (K. Malevic).
L'arte non è di questo mondo, anche se intensamente in
questo mondo vive, e non si lascia rinchiudere in questo periodo storico che
la limiterebbe e ne ridurrebbe la forza del suo atto a un tempo piccolo.
Non c'è una visione unitaria della realtà ma l'"artista
ne ha una, l'ingegnere un'altra, lo scienziato una terza, il prete una quarta,
e così via" (come direbbe Malevic).
Una visione "ottusa" (R. Barthes), interdisciplinare/indisciplinare
fra produzioni artistiche e/o extra-artistiche contribuisce a creare traduzioni
tra linguaggi differenti, fra rapporti di segni (semiosi).
La "visione" opera con segni indipendenti dalla realtà
e tende a "farsi un'ottica" (P. Cézanne) altra rispetto a quella
del codice di riconoscibilità e conferma della ragione.
La visione artistica si orienta verso un affrancamento dal visto,
dal vissuto, dal fatto, dal precostruito, dall'artefatto senza alcune limitazioni
ordinarie, pre-scritte.
I segni pittorici s'innestano nella tela regolare della vita
con un loro specifico "distanziamento", grande o piccolo che sia,
"distanziamento", se necessario, "abbastanza violento", "che
possa rendere" dice Leiris "una rappresentazione slegata
dalle percezioni consuete secondo cui, nell'esistenza comune, si smette
o quasi di vedere questa realtà, offrirne una rappresentazione
spiazzante, situata al di fuori delle abitudini che spengono lo sguardo".
I segni pittorici (come dei breaks pittorici) potrebbero essere
paragonati ai breaks del mondo jazzistico (M. Leiris) che si distanziano dal
brano (pur attenendosi ad esso) per creare un effetto differito indebolendo
l'impatto musicale ma accrescendone la risonanza.
De-scrittura / descrizione
La pittura non vuole riprodurre, non ha modelli da rappresentare
o storie da narrare (G. Deleuze) e non è "arte di raccolta"
(K. Malevic) ma lavoro di traduzione (e non di trascrizione), di de-scrittura
(e non di descrizione), linguaggio creativo ricco di infinite possibilità,
combinazioni e interferenze tra segni differenti e altri rispetto ai codici
del dominio e della globalizzazione.
Un linguaggio inteso come congegno creativo capace di produrre
"un numero infinito di mondi possibili" (Leibniz).
La pittura s'è liberata da ogni funzione di "reportage"
(F. Bacon), ha smesso di "far 'trasparire' il mondo sulla tela" (G.
Bataille); essa si è emancipata dalla "servitù che le veniva
imposta dalla società organizzata, e che la subordinava al soggetto rappresentato"
in cui "il valore di un quadro consisteva nella forza che dava a ciò
che voleva dire" (G. Bataille).
Sicché è necessario ricorrere a qualcosa che non sia
una trascrizione pressoché "fotografica" ma sviluppare i propri
tipi di raffigurazione.
All'idea di "ritrarre una donna" e di rappresentarne
la "naturale bellezza", Braque dichiara di non esserne capace, aggiungendo
che nessun altro (nessun artista) è in grado di farlo, per la semplice
ragione che l'artista si trova nelle mani strumenti altri dal reale, e non può
che creare "un nuovo genere di bellezza" che appare in termini di
volume, di linea, di massa, di peso (F. Menna).
La visione di un'arte che non fa più parte del mondo della
rappresentazione, né che è la sua rappresentazione, fa sì
che l'arte non rifletta più la realtà come in uno specchio in
cui ci si possa tranquillamente mirare o appagare.
L'arte supera la vita ponendola in continua discussione e la
interroga in un dialogo serrato.
La pretesa di "rendere il visibile" rassicura e tranquillizza.
Invece l'opera pittorica ha la capacità di ossessionare il "mondo
degli oggetti", d'inquietare la vita e di rompere la monotonia di qualsiasi
muro al quale è appesa restando sospesa e non fissata ,
proprio per la sua forte propensione strutturale all'icona, al "figurale"
(G. Deleuze), alla somiglianza, al differimento.
Alterità / identità
La pittura non rende i corpi, non rende i paesaggi, non rende
la luce.
La pittura è resa dell'identità, ne è la
parodia: qualcosa che "somiglia" alla vita ma non la identifica!
Ritrae ritraendosi: la somiglianza come autoritrarsi nella resa
dell'altro, all'altro. "La divinità dell'artista sta nella sua appartenenza
a una extralocalità suprema" (M. M. Bachtin) e situa la propria
attività di ricerca fuori dalla contemporaneità.
L'artista è colui che differisce, che non resta prigioniero
dell'attuale, colui che "non soltanto dall'interno partecipa alla vita
(pratica, sociale, politica, morale, religiosa) e dall'interno la comprende,
ma che anche l'ama dal di fuori, in un'attività extralocalizzata e avulsa
dal senso" (Bachtin).
Per deformare o alterare "un ordine convenuto" e cogliere
sulla tela degli effetti differiti di somiglianza, l'artista guarda la vita
non in maniera diretta, immediata, frontale, ma si distanzia dal mondo già dato
e, senza rimanervi indifferente, potrà vincere tutto ciò che, altrimenti,
lo omologherebbe, circoscriverebbe, che ne ridurrebbe la forza, la creatività
artistica espressiva, così come lo sguardo indiretto di Perseo, attraverso
il riflesso dello scudo, vinse la pietrificazione di Medusa.
Il distanziamento da ogni contesto secondo le indicazioni
di Bachtin comprende anche l'affrancamento dell'opera dal vincolo stretto,
immediato, "ovvio" dell'autorità dell'autore.
Come afferma anche Picasso, "spesso il quadro esprime molto
di più di quello che l'autore voleva rappresentare" e "l'autore
contempla stupefatto i risultati inattesi, che non ha previsto".
"Il pittore è l'unico ad avere il diritto di guardare
tutte le cose senza alcun obbligo di valutarle" e si pone nei confronti
delle cose come se le vedesse per la prima volta, come "viste da un essere
di un'altra specie" (M. Merleau-Ponty) Monet avrebbe confidato ad
un giovane pittore il desiderio di nascere cieco, per non conoscere nulla degli
oggetti, e recuperare di colpo la vista per ritrovarsi vergine di fronte alle
apparenze per poter raffigurare l'alterità della vita, superando
e rinnovando l'universo quotidiano, abituale, familiare e l'intera vita stessa.
L'atto artistico, l'opera, vive in un tempo grande e guarda a
uno "stesso" fenomeno nelle sue molteplici tonalità, accentuazioni
e risonanze oltre le omologazioni e oltre le illusorie e distruttive differenze
identitarie.
I segni di differenza hanno un evidente carattere distruttivo,
la cui massima espressione è la guerra.
L'idea utopica è quella dello spostamento
verso una Babele felice, in un mescolamento delle differenze in cui esista non
una sola parola, un solo linguaggio, una "Neolingua" (per usare l'espressione
letteraria di Orwell in 1984) ma una produzione infinita di nuovi linguaggi
capaci di differimento.
L.P.
Bologna, 2002