Una versione di questo testo è stata pubblicata in "Corposcritto" 3 (primavera 2003), accompagnata da tre Non-Oggetti.

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Luciano Ponzio

VISIONI

ARTISTICHE

 

"Vi è una immensa differenza tra il vedere una cosa senza matita in mano e il vederla mentre la si disegna. O meglio, sono due cose assai differenti che si vedono. Anche l'oggetto più familiare ai nostri occhi diventa tutt'altro, se ci si mette a disegnarlo: ci accorgiamo che lo s'ignorava, che non lo si era mai veramente veduto"

(Paul Valéry, Degas Danza Disegno)

 

Per molteplici tonalità, qualsiasi discorso sul corpo appare privo di definizione. Difatti, l'uso metaforico della parola "corpo" si può trovare dappertutto: tutto è corpo, o almeno si vorrebbe ridurre ogni cosa ad un'unità corporale, al culto del corpo. La forma del corpo si mostra sotto infinite varietà ma è anche fortemente condizionata dalla tendenza di affermazione dell'identità — come direbbe Malevic, "lo Stato ammette come reale solo ciò che ha un nome" — e di umanizzazione isterica delle cose (più evidente nella cultura occidentale) che, in fin dei conti, violenta e riduce ogni corpo in corpo privato.

Anche la pittura, tenuta "al guinzaglio dell'arte figurativa" (Malevic), è stata accorpata, fatta aderire e costretta a plasmarsi col mondo, alla maniera di questo mondo, a mostrarsi sotto la sua luce.

Tuttavia, questo mondo non è mai riuscito a costringere la pittura alla resa totale! La pittura non riproduce il trompe-l'oeil della vita, né corrisponde alla "resa felice" condotta dalla tutrice logica della ragione che ridurrebbe l'arte ad illustrazione, a ciò che comporta indici sufficienti per lo sguardo che si rappresenta il mondo.

La pittura, con i suoi segni eccedenti, non rende ragione e sa bene di girare a vuoto, intorno all'idea di significare; sa di non essere capace né di "abbracciare" l'esistenza o l'essere né, tanto meno, di fissare il mondo su una tela, se non in un rapporto di somiglianza, di raffigurazione, di differimento.

Differire per un certo grado dalla realtà "realistica" è essenziale alla pittura per sopra-vivere al di là di ogni codice e tempo (da qui il valore artistico di un'opera). Intorno all'idea di significare gli oggetti, persino "la parola va a tastoni" (Merleau-Ponty).

"Se allontaniamo dal nostro spirito l'idea di un testo originale di cui il nostro linguaggio sarebbe la traduzione o la visione cifrata — dice Merleau-Ponty ("Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio") —, vedremo che l'idea di un'espressione completa è assurda, che ogni linguaggio è indiretto o allusivo, è, se si vuole, silenzio".

La pittura è visione altra, rovesciata, apocalittica. L'Apocalisse — comunemente intesa in maniera negativa e pessimistica come "finimondo", "catastrofe" o "disastro" —è ricondotta al suo significato originario e positivo di "rivelazione", di "svelamento". Il quadrato di Malevic può essere considerato come l'icona dell'Apocalisse che, sotto la sua nera luce, rivela all'uomo prigioniero del proprio orizzonte, l'inconsistenza del "mondo degli oggetti".

Come scrive Nietzsche: "l'essenziale della nera arte dell'oscurantismo non è il voler offuscare le menti bensì il voler tingere di nero l'immagine del mondo, oscurare la nostra idea dell'esistenza" (Umano troppo umano, I-27).

Nell'Aurélia di Nerval, la visione apocalittica è costituita dal sogno, come alternativa alla realtà e come rivelatore di un mondo invisibile:

"Arrivato a Place de la Concorde il mio pensiero era di uccidermi. A più riprese mi diressi verso la Senna, ma qualche cosa mi impediva di portare a termine il mio proposito. Le stelle brillavano nel firmamento; ad un tratto mi parve che tutte insieme si spegnessero come i ceri che avevo visto in chiesa. Credetti che i tempi fossero compiuti e fosse giunta la fine del mondo annunciata dall'Apocalisse di San Giovanni. Mi pareva di vedere il sole nero nel cielo deserto e un globo rosso di sangue sopra le Tuileries. Mi dissi: 'Ecco, la notte eterna incomincia e sarà terribile. Che cosa succederà quando gli uomini si accorgeranno che non c'è più il sole?' [...] nei pressi del Louvre camminai fino alla piazza dove mi attendeva uno strano spettacolo. Attraverso nubi continuamente incalzate da un vento veloce, vidi diverse lune passare con rapidità estrema. Pensai che la terra fosse uscita dalla sua orbita e che errasse per il firmamento come una nave senza alberi, avvicinandosi e poi allontanandosi dalle stelle che ora ingrandivano ora rimpicciolivano. Per due o tre ore me ne rimasi in quel caos [...]. I contadini stavano giungendo con le loro derrate e io mi dicevo: 'Quale sarà il loro stupore quando vedranno che la notte continua a prolungarsi...'".

Nerval assume come vita reale il sogno e si concede solo qualche barlume di realtà provocando una crisi dell'ottica "realistica" della realtà. Il sogno e la realtà coincidono in un unico regno dalle infinite possibilità di visione.

Lo stesso discorso vale per il "sognatore" di Dostoevskij in Le notti bianche. Qui, la bianchezza ininterrotta di cinque notti primaverili contribuisce a dare luogo a visioni rarefatte, abbozzate, processi diacronici, "alogici" (come potrebbe dire Malevic) della realtà.

Lasciare la terra, le preoccupazioni terrestri per la visione incontrastata significa provocare e provare un'altra vita in cui è possibile "vedere il cielo svelarsi e aprirsi in mille aspetti di inaudita magnificenza" (Nerval).

L'oscurità, il "sole nero" della visione artistica fa sprofondare la ragione "illuminata", la logica convenzionale come quando Van Gogh "cominciò ad attribuire al sole un significato che non aveva ancora avuto fino in quel momento [dopo la notte del dicembre '88, in cui il suo orecchio fu auto-reciso con un colpo di rasoio e offerto in una casa chiusa]. Lo fece entrare nelle sue tele [...] [ed è] allora che tutta la sua pittura ha finito coll'essere irraggiamento, esplosione, fiamma [...]. Quando è cominciata questa danza solare, di colpo la natura stessa si è scossa, le piante si sono incendiate e la terra si è messa a ondeggiare come un mare veloce oppure è esplosa: non è rimasto più nulla della stabilità che costituisce il fondamento delle cose" (Bataille).

Proseguendo la nostra critica nei confronti di una pittura rappresentativa, ed in particolare impiegandola nell'analisi del genere "ritratto", riteniamo opportuno fare riferimento ad alcune opere letterarie, quali: L'opera di Zola, Il capolavoro sconosciuto di Balzac e, infine, Il ritratto ovale di Poe (queste ultime, sulla scorta rispettivamente di Leiris e di Derrida). Malgrado la loro differenza, possiamo riscontrare una somiglianza tra questi tre testi letterari. Infatti, sia ne L'opera di Zola, sia ne Il capolavoro sconosciuto di Balzac, sia ne Il ritratto ovale di Poe viene messa in scena l'unione impossibile tra arte e vita attraverso una narrazione sì drammatica ma, se si vuole, anche particolarmente critica nei confronti della rappresentazione come mimesi della realtà.

In ciascuno dei testi letterari citati, si narrano le differenti storie di tre artisti-pittori che, in un modo o nell'altro, mostrano di avere il medesimo accanimento e ostinazione nel credere di poter riprodurre la vita sulla tela. L'andamento delle narrazioni di Zola, di Balzac e di Poe, sembra quasi voler simulare il vano e tortuoso rincorrere l'impossibile conciliazione tra arte e vita da parte dell'artista. Le narrazioni giungono al culmine quando i tre artisti-pittori finiscono col credere di aver ottenuto tale impossibile conciliazione, la sovrapponibilità di arte e vita. In base a tale illusione, il pittore Frenhofer (il protagonista de Il capolavoro sconosciuto di Balzac), che per il suo perfezionismo maniacale giungerà a fare della sua donna dipinta una poltiglia incomprensibile — ne rimarrà visibile solo un piede nudo! —, non esita a sostenere di fronte ai suoi amici pittori che la sua opera: "non è una tela, è una donna!".

Analogamente, ne L'opera di Zola, la modella Christine, innamorata del suo pittore Claude, lo rimproverava perché gelosa di una tela:

"Tu mi respingi," finì violentemente, "tu ti scosti da me, la notte, come se ti repugnassi, tu vai altrove, e per amare che cosa? Un niente, un'apparenza, un poco di polvere, un poco di colore sulla tela!... Ma guardala, guardala ancora, la tua donna lassù! Guarda che mostro ne hai fatto, nella tua follia! Chi è che è fatto come quella roba? Chi è che ha le cosce d'oro e i fiori sul ventre?... Svegliati, apri gli occhi, rientra nella vita".

Il ritratto ovale, infine, si conclude con l'esultanza drammatica del marito pittore che, dopo aver impiegato giorno e notte come modella la moglie per poterla raffigurare perfettamente, dato il tocco conclusivo,:

"[...] rimase per un attimo in estasi dinanzi all'opera ch'egli aveva compiuto; ma continuando a contemplarla, subito tremò e si fece pallido e, atterrito, scoppiando in un urlo: 'Ma questa è la vita, che ho creato!' si volse a guardare la sua beneamata, la quale era morta!".

Tutti e tre questi racconti narrano il paradosso di una inevitabile e duplice sconfitta: la perdita dell'arte e la perdita della vita.

La distanza tra arte e vita è irriducibile e ineliminabile. Ogni vano tentativo in senso contrario precipita nella rappresentazione, in una maniacale e distruttiva identità. Lo scarto, la distanza, il distanziamento, il differimento di arte e vita sono la condizione stessa della raffigurazione artistica - addirittura ciò che essa mette in scena - per rendere sulla tela le possibilità altrimenti sacrificate.

Ancora in riferimento alla portata, alla potenza interpretativa della visione artistica, Lévinas, in un saggio del 1948, intitolato "La realtà e la sua ombra", contrappone l'"immagine", che considera propria della visione artistica, al "concetto". L'immagine rivela l'alterità dell'oggetto, interpretato dal punto di vista conoscitivo e racchiuso nell'identità espressa dal concetto, facendolo risultare "doppio": non solo oggetto di conoscenza, sottoposto a un concetto, ma anche altro da esso e altrettanto reale. La luce non rinnega l'ombra e l'immagine che il testo artistico raffigura è il doppio dell'oggetto, è, come dice Lévinas, "l'ombra" della realtà. "La realtà" — dice Lévinas —"non è soltanto ciò che è, ciò che si svela nella verità, ma anche il suo doppio, la sua ombra, la sua immagine". Una qualsiasi cosa o una persona è se stessa e la sua immagine, identità e alterità: la somiglianza consiste in questa non coincidenza, in questo rapporto che l'arte coglie nell'immagine. L'immagine è l'alterità che sfugge all'identità, la quale, osserva Lévinas, come un sacco bucato è incapace di contenerla.

Alla stessa maniera Borges, nella poesia Le cose — che fa parte della raccolta Elogio dell'ombra (1981) — descrive l'indifferenza degli oggetti ordinari nei confronti di chi li usa credendo di padroneggiarli, mentre essi non si accorgono neppure della sua scomparsa, quando la morte se lo porta via. Di fronte a tutti i problemi che affannano il realismo umano della praticità oggettiva, l'altro dall'oggetto, il suo non, il suo nulla (Malevic) resta del tutto indifferente.

Il "non-oggetto" di Malevic resta indifferente al realismo pratico, all'oggetto, all'eccesso di forma, all'imputridimento delle categorie teoriche e pratiche che vogliono manipolarlo, fissarlo e imbalsamarlo nell'identità.

Il non dell'essere oggettivo, l'essere non-oggettivo è estraneo all'ordine apparente del realismo pratico, ai suoi fini, alle sue necessità e ai suoi fallimenti. Ciò che rispetto al mondo oggettivo è un semplice negativo, un nulla restituisce ad esso la sua indifferenza.

Il rapporto che intercorre tra arte e vita — intesa come vita affrancata dallo sguardo pietrificante e scientifico dell'uomo, un uomo che continuamente si dà a vedere una sintesi intellettuale sempre più delucidata del mondo — è inevitabile nonché inseparabile e ineliminabile.

Con Malevic, la pittura è stata liberata e, con la svolta del suprematismo, non solo si è riscattata l'Arte da una sua continua "mortificazione" e da un'ostinata pretesa generale di renderla un surrogato della vita o, peggio ancora, "serva" dello Stato, della Cultura, dell'Informazione, subordinata e ridotta a mere forme funzionali e convenienti, ma si è anche risvegliata la percezione del mondo generalmente intorpidita per il perdurare di una posizione prevalentemente pratica o utilitaristica.

L.P.

Bologna, 2003

 

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