Testo accompagnato da Do not cover. Il pavimento può essere soffitto? sotto il titolo comune Detrascrizioni, e pubblicato in "PLAT, Quaderni del Dipartimento di Pratiche Linguistiche e Analisi dei Testi" dell'Università degli Sudi di Bari , 2006, pp. 299-304.

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Luciano Ponzio

SORTIE. DEPASSEMENT DE L'ART

 

Picasso, La pose du modéle, 1926

 

“La mission de l’art n’est pas de copier la nature, mais de l’exprimer!

Tu n’es pas un vil copiste, mais un poète!”

(Frenhofer, Le Chef-d’Oeuvre Inconnu de Balzac)

 

 

Il cavalletto, le tele, i pennelli, i tubetti, la sua mano dipinta; non dipinge se non per provare a vedere disegnando; non è la prima volta che l’artista dipinge senza guardare, o scrive senza sapere se forma qualcosa; dove nulla ci sarà, leggete:

“S-C-R-I-T-T-U-R-A”

…dipingere e scrivere sono in lui uno.

L’artista cerca di combinare i toni migliori per dipingere a parole ciò che la scrittura dipinta rende sulla tela in un sistema di segni iconici – capaci questi ultimi di esprime la realtà attraverso una realtà altra.

In una BABILONIA DI SEGNI, tuttavia si chiede all’artista di definire qualcosa che non è finito, che quindi è ancora poltiglia, un groviglio di segni non conclusi, magma aperto a tutte le possibilità.

Per esempio, se si volesse esprimere linguisticamente un girasole, si ha il codice linguistico scritto e parlato in cui la parola “girasole” è simbolo di quel girasole, semplicemente prescritto come segno convenzionale arbitrario, cioè come significante di quel significato. Se, invece, si desiderasse esprimere quel girasole attraverso la pittura, l’artista non può far altro che tendere a rendere quello stesso girasole altro, espresso qui attraverso un segno talmente somigliante che il girasole dipinto diventa segno iconico di se stesso, ed esso stesso si scrive come  “girasole”.

Se il fine della lingua è rientrare nel ciclo produzione-consumo imprimendo una spinta prevalentemente comunicativa a scapito di quella espressiva, la scrittura, invece, proietta le parole al di là del senso, se non addirittura in contro-senso, usando le parole come colori, ravvivandole nei colori e nei toni (“I tasti addentano le dita del pianista”, direbbe Majakovskij gettandosi nelle parole come ci si getta nei colori).

La lingua dunque ricopre, cerca di contenere il linguaggio, ma quest’ultimo continua a sussistere, a resistere sotto la prima, sovvertendola.

Il testo artistico non è perciò afferrato come compiuto ma si rende nella sua incompibilità.

Nell’era dell’“alta fedeltà”, felici sono gli altri, tutti coloro i quali convengono con loro stessi di capirsi perfettamente seppur imbottigliati in costrizioni imposte e dalla lotta per la sopravvivenza, logorati dal “lavoro”, stremati e consumati da una rappresentazione che li padroneggia come nessun altro.

Se pur capaci di prudenza e scetticismo, questi signori – attratti da alcune convenzioni che bisogna conoscere e accettare per essere tollerati e immessi nella rappresentazione – sono spesso influenzati e preda di scatti sovraesposti (palme slanciate, spiagge bianchissime e cieli cristallini color celeste impero). Così persone troppo profonde non comprendono più, impantanate nella rappresentazione, in una sempre più patetica dimostrazione di quanto l’intera vita rappresentata sia in realtà una mera esposizione di immagini dell’ideologia dominante, d’élite imbevuta di una felicità reclamizzata, capitalistica, materialistica, quella più rozza e scontata. Un livello codificato di rappresentazione i cui ideali sono basati sul benessere (proprio) e sul consumo (altrui).

L’arte un prodotto di consumo? Se l’arte tutta ha cominciato ad essere minacciata dalla mercificazione? Niente affatto! L’arte non si consuma (come rileva Pasolini a proposito della poesia). Ci sono delle cose che il sistema non può assimilare, non può digerire. Bisogna fare della pittura una scrittura sempre più difficile, complessa, provocatoria magari, critica, per renderla meno consumabile possibile. Solo così un testo d'arte resta inconsumato.

Ogni fine pratico per il testo artistico è la  marcia funebre del suo movimento (conviene ai morti!).

Ribelle sotterraneo, l’artista, come intellettuale dell’arte, è contro le regole del commercio, cioè immettere l’arte nel ciclo produzione-consumo (ovvero mercificare, quotare quanto si crea).

Se da una parte la scrittura cerca di rivelare qualcosa di nuovo, dall’altra, la rappresentazione onnipervadente non fa altro che difendere nozioni acquisite: dando come risultato il solito feticismo della merce delle società capitalistiche. Ma non è il morto che seppellisce il vivo, e la vita, per essere effettivamente vita, chiede di continuare affinché, in piena velocità, la massa della menzogna salti bruscamente fuori dalla linea della verità contorta facendo risultare non “tutte uguali” le facce dei popoli lontani che non abbiamo ancora saputo ascoltare (chi è a occidente di chi?).

Che cos’è la scrittura dipinta, come ci si arriva? E’ l’azione corrosiva per aprirsi un varco oltre la rappresentazione, un’azione lacerante e perforante in modo lento e paziente tra ciò che si sente e ciò che si può.

L’artista ha smesso da tempo di andare in vacanza portandosi dietro inevitabilmente se stesso (la sua identità, il suo ruolo, la sua responsabilità ridotta, il suo impegno sociale come suoi alibi). Egli ora GIGANTEGGIA, solitario e coraggioso, ora visionario, ora realista, e sovente l’uno e l’altro insieme, lucidamente folle.

Sulla soglia di un’avventura, egli è sospeso sull’abisso della tela turbolenta. Non per ricoprire silenzi o bianche superfici a cui badare. Al di là di ogni essere, egli rende nulla ogni pienezza del vuoto in oblio.

Dal nadir del mondo, la pittura attinge allo zenit di un presente drammaticamente imbrattato giacché essa ha bisogno dell’altro, o di un altro, per effettuarsi nella raffigurazione differita.

Voglia l’arte insegnarci come stanno le cose, abituarci a leggere e scrivere, ad orientare i pensieri in un determinato senso? No, l’arte non dà soluzioni, non insegna niente – ciò spetterebbe a un cattedratico o a un docente; pone semmai dei problemi, solleva delle contestazioni, e lascia il discorso irrisolto, sospeso, senza fine.

Come ha dimostrato da tempo la scrittura dipinta della pittura, l’oggetto non ha mai veramente avuto un ruolo decisivo, ma sono stati unicamente il rozzo realismo materialistico e la dittatura della rappresentazione ad aver spinto l’oggetto in primo piano (dall’aureola sul capo alla stella sul petto) e ad aver dato inizio al tempo del mondo finito – se così si può dire. Pertanto, la pittura sopporta oggi tutte le accuse d’illogicità, d’infedeltà, restando perciò impassibile alla parola d’ordine:

“R-A-P-P-R-E-S-E-N-T-A-Z-I-O-N-E”

 

“ – Quando io uso una parola, ribatté Bindolo Rondolo piuttosto altezzosamente, – essa significa precisamente ciò che voglio che significhi… né più né meno.

– Bisognerebbe sapere, – disse Alice, – se voi potete dare alle parole molti significati diversi.

– Bisognerebbe sapere, – rispose Bindolo Rondolo, – chi ha da essere il padrone… ecco tutto.”

(L. Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie, pp.184-185)

 

Sul ciglio di uno slancio creativo nel futuro raffigurato, viene contrapposta la tendenza alla stabilizzazione della invariabile rappresentazione. Ma il senso sfugge alla bugia idolatrica che ne vorrebbe prendere il posto, poiché sotto l’oggetto delirante, nelle parole e nelle immagini, si cela ancora, ribelle e sotterraneo, quell’elemento ottuso, folle, iconico, che sussiste, che resiste all’ordine imposto e che il regime espelle (regime che da sempre adotta la linea di egemonia e di supremazia di un senso su di un altro, nozione questa incapace di sostenere il pensatore che vi si appoggia, risultando pertanto ridicolo principio di esclusione e di estromissione dell’altro, dell’extra, dello scarto, del parergo, dell’accidenti, della macchia, del non-oggetto, secondo cui “uno di noi è sempre in errore!” e il più delle volte “è sempre l’altro che non riesce a vedere ancora!”).

Tutto accade al parergo, sull’anello dell’orizzonte, e in virtù di esso si passa dall’altro lato, altrove ed è perciò che la pittura sbordante conduce le sue sbavature al di fuori del cocciuto telaio che vorrebbe ogni suo tratto,  gesto e colore, morto e concluso in esso.

La scrittura smentisce tanto l’attuale quanto l’attuabile (in maniera drammatica, la produzione linguistica più visionaria e inattuale oggi suonerebbe sintatticamente così: “LA GUERRA È FINITA!”), e la sua resa, sempre altra, apre un varco oltre il presente: una scrittura dipinta che, ritraendosi, arriva a scriversi. La scrittura infedele – che sa esprimersi al meglio nel linguaggio della letteratura o della pittura – schiva la contemporaneità, non sopporta il prima e il dopo, il passato e il presente. Il gioco delle scrittura impossibile rimane impassibile all’attuale, mostrandosi senza misura, inarrestabile, folle, inattuabile dalla vigilia all’indomani. Il fuori-senso infunzionale e inattuale prenderà senso, più senso, iconicamente, in maniera differita, altrove. Solo una pittura che viva, che disegna, che scriva, potrà pensare di risuonare senza fine, percorrendo, fuori-campo, tragitti destabilizzanti, dalle linee sempre mute, mutevoli e differite.

E in quale senso, in quale senso interpretare le parole e i dipinti, i testi della scrittura, lo spartito pittorico, le partiture, il pittogramma? Sempre nei due sensi a un tempo! Almeno due! In contestazione delle identità, la scrittura in generale, di sbieco, dilania il soggetto – laudatorio e servile –, smembra i corpi privati, decostruisce il buon senso comune come assegnazioni fissate e imposte. Il genio e il talento della scrittura si misurano sulla sua traccia, sulla forza incisiva di passare, solcare una frontiera nuova, là dove non era mai stata vista prima, e in tal senso spostare la riflessione critica di esseri e concetti secondo nuove distribuzioni, secondo una nuova ottica.

Lo specchio è solo la metafora della pittura. Tanta eccellenza di un universo specchiato appartiene a quei contemplatori che acconsentono alla sua perdita, appagati nella veduta delle umane carceri della rappresentazione!

Ad un linguaggio, pittorico o letterario che sia, è essenziale la “somiglianza iconica” che, data la sua incessante capacità di poter scivolare su ciò a cui rinvia col potere di evocare, lo rende discorso senza fine, infunzionale, inafferrabile, sempre vivo e rinnovato.

Per attingere alla pittura o alla letteratura, occorre del resto imparare a scrivere, “a incidere”, se si vuole riorientare le pratiche quotidiane, uscire dalla routine, cambiare i punti di riferimento, spostare i confini, reinventare il mondo e la sua pace (“Datemi una nuova vita”, è il grido implorante del mondo d’oggi!).

La scrittura disegna contorti stratagemmi, astuti e indiretti, che incidono sulle norme, sui valori, sulle attese e sulle pretese, sulla polizia che assoggetta il mondo alla legge della rappresentazione. Solo così la scrittura potrà lasciare affiorare ciò che vi è di più ardito nella genialità creatrice.

Come una goccia di vino annegata nell’oceano, la scrittura dipinta si perde e si dice desolata di addolorare tutti coloro i quali sono appassionati di chiarezza!

L.P.

Barcelona-Bologna-Lecce, 2005

 

 

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