Testo accompagnato da una serie di 7 disegni dal titolo: "Seven Colours In The Sky" (for Rungrat Sirimoon, 19 sep 1969-4 dic 2007, Chiang Mai, Thailand), "Athanor"- Umano Troppo Disumano, Meltemi, Roma, 2008.

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Luciano Ponzio

IL SIPARIO DELLE PALPEBRE

Pittura in toni di Scrittura

Ecriture-Peinture: Le Arti Sorelle

dittico, cm 120x50 ciascuno circa

acrilico, collage, vernici su tessuto nero

2007

 

Nel 1921, quando Klee entrò a Bauhaus, s’installò

in uno studio vicino al mio. Un giorno sentii uno strano rumore

come se qualcuno battesse il piede in modo cadenzato. Incontrando Klee

nel corridoio gli chiesi se avesse notato qualcosa.

“Ah! Avete sentito?

Scusatemi, mi disse, stavo dipingendo

e dipingevo, quando a un tratto

è stato più forte di me, mi sono messo a danzare,

e voi mi avete sentito. Sono davvero desolato.

Pensate che, poi, io non danzo mai!

(George Muche, 30 giugno 1956)

 

 

Nella propria attività artistica, ogni artista, pur di complicarsi la vita, si configura l’idea di un linguaggio incisivo, o di una “scrittura” come la intendono i pittori, condotta cioè per trasmigrazioni e dissonanze verso una ricerca indisciplinata e inoperosa, martellata cromaticamente in una danza di segni, spesso trattenuti dai quattro legni di un telaio che tende sempre la sua tela a salvaguardare i colori stupefacenti dalla società moderna, la quale, con la sua visione seria, è detentrice dell’artificio che uccide e che vorrebbe secca ogni pittura scrivente.

Benché da questa scrittura dipinta così dispiegata, disoccupata nel suo laboratorio corroborante di ricerca dell’impossibile, dell’invisibile e dell’indicibile, sia bandito ogni sproloquio estetico – ma che pur si presta bene ad una lettura letteraria e a percorsi interpretativi sempre nuovi –, diversamente la Cultura dalle tende di velluto pesante, quasi periodicamente, finisce sempre col giudicare (a ragione!) questa proposta di lavorazione come “fuoriluogo”; una Cultura, questa, che, non smettendo mai di far “quadrare il cerchio”, riporta, nonché ripropone fino alla nausea, quanto è sempre stato possibile e visibile, al fine di mantenere a tutti i costi il cosiddetto “stato di fatto”: uno “stato di fatto” a cui appartengono tutte quelle persone tradite, e ahimè numerose, che credono nella spiacevole abitudine di avere il mondo falsamente a portata di mano e che hanno potuto dedicare solo una piccola parte al proprio tempo libero, o per lo meno, quello che lo stato concede loro, a seconda dei ruoli e delle opportunità e al tipo di lavoro a cui, per vocazione o meno, esse sono per lo più costrette a consumarsi secondo la maledizione divina rimessa a lucido a colpi di sputi nel mondo produttivo e ritualistico del lavoro e nel sistema capitalistico che regolano la vita dell’occidente. Finché vi sarà una società che riconosce e accetta l’arte e, accettandola, la rende innocua museificandola, non vi sarà né valore di opera d’arte né, tanto meno,  movimento di visione.

Il saper captare intorno al mondo e il saper cogliere sulla tela segni inutilizzati e inutilizzabili chiama l’arte a reinventare i propri valori nonché presuppone l’unica via di fuga dalla contemporaneità (così come un tempo Paul Gauguin abbandonò la vita dell’uomo d’affari, facendosi licenziare e fuggendo verso quell’isola dell’Oceano Pacifico dal nome lontano: Tahiti): scelta evasiva e senza fine, stratagemma straniante i cui tratti non vogliono avere nulla a che vedere con la fretta della vita moderna e della realtà che si lascia ripetere.

Ecco perché un pittore cerca sempre di acuire la propria visione. Poco importa, del resto, avere, la vista ridotta: “Il disegno, se non il disegnatore o la disegnatrice, è cieco. In quanto tale e nel momento in cui si compie, l’operazione del disegnatore avrebbe qualcosa a che vedere con l’accecamento. In questa ipotesi oboculare (aveugle deriva da ab oculis: non da o attraverso gli occhi, ma senza gli occhi) resta da capire come il cieco possa essere un veggente, come abbia talvolta la vocazione da visionario" (J. Derrida): ciò che conta è la tensione della visione. Bisogna avere lo sguardo aguzzo, di modo che non si smetta mai di guardare, ascoltare, di esercitare la vista e cogliere i segni iconici che il mondo offre ma che la rappresentazione tiene celati nell’idolatria. Si tratta di andare più lontano di quanto dia a vedere la rappresentazone, al di là dell’orizzonte, ma questo “al di là dell’orizzonte” è già nel mondo: “il mistero è nel visibile”, come già disse Magritte.

“Pittore” è un brutto termine utilizzato dalle mere funzionalità statali. Alla carriera l’artista preferisce la magnifica vocazione dello scrittore, che lo proietta nel destino fatale di “essere in ascolto”, nell’atteggiamento di comprensione rispondente con le iconiche melodie del mondo, di sentire il fremito delle cose alla variazione della luce, sbieca o radente, e tradurle sulla superficie bianca in toni dello spazio che esaltino il mondo, reinventandolo.

Così come quando, ancora addormentati, ci si sveglia all’improvviso e, dopo tre colpi battuti, si spalanca il sipario delle palpebre, medesimamente, la scrittura, vaga, indistinta, indesignabile – e indisegnabile –, traccia la sua orbita nel cielo di carta mostrandosi in un sol tratto come costellazione stregata nell’alone di un’immagine colta da un acrobata trasognante, dal gesto scrivente e dal segno tracciante: un artista-scrittore.

Ma che sarebbero la scienza, la poesia, la letteratura, la filosofia, la pittura, il cinema, il teatro se non audaci abduzioni, scritture dell’impossibile, dell’invenzione, dell’invisibile, dell’irrapresentabile? O se non altro che tentativi impertinenti per arrivare a toccare le cose, per arrivare ad avere un rapporto con l’altrimenti del mondo visibile, con ciò che è altro dall’identico, con ciò che è vivo e non conclude?

La tela andrà dove andrà. Nel suo stato inaudito e nebuloso, il testo di scrittura è in grado di esorcizzare gli idoli, rendendo inediti percorsi interpretativi e conturbanti campi di applicazione senza fine – talvolta rasentando i limiti dell’assurdo a chi voglia tenere il discorso; ma non quel discorso intellettualizzato e obeso di concetti: soliti discorsi quasi sempre attardati a contorcersi in mere trovate estetiche per una immediata fama felice: discorsi incipriati da gran parte di critici-recensori e storici dell’arte che, non riuscendo a andare più in là del loro naso e del loro modo di parlare elegante, non fanno altro che scimmiottare se stessi porgendo in calici di champagne la solita purga della mediocrità pur di abbindolare ben paganti uditori, spettatori e ispettori nella mielosa abitudine della massa rappresentazionale. E se la ragione protegge critici-recensori e storici dell’arte e tutti coloro i quali consegnano alle scuole e alle università lo studio della geografia, del costume e della storia, l’artista respinge con sdegno chiunque gli offrirà questi fossili idolatrici in luogo della pulsione iconica dell’arte e della bellezza vivente.

Ogni interpretazione è a posteriori. Dipigere o scrivere è, invece, partire da qualcosa di ignoto, invisibile e che si rende ai nostri occhi quasi per miracolo e inispiegabilmente.

Pertanto, si potrà dire ribadendo: se “pittura è scrittura”, la via è aperta per scandire il ritmo martellato della scrittura cromatica permettendoci di rileggere le modulazioni del disegnare e del dipingere come uniche e sole incarnazioni di arte e scienza, e che le altre risultano essere solo mere derivazioni: qui l’universo del disegno si disegna: i tratti vengon tirati per tanti versi e, talvolta, senza staccar la penna dal foglio, lo scrittore-disegnatore, solo dimenticandosi che mentre scrive sta “scrivendo”, riuscirà a rendere in linea un mondo senza spessore né volume dalle figure lineari e filiformi e per di più col minimo dei mezzi possibili, magari col il solo nero di un calamaio e il bianco di una pagina – con pochissime cose, col minimo dei mezzi possibili, col bianco e col nero, con un po’ d’inchiostro da cui la natura non sa ricavare nulla avendo al contrario bisogno di un materiale letteralmente infinito (Valéry, “Piccolo discorso ai pittori incisori” in Valéry, P., Scritti sull’arte, p. 121). In apparenza si tratta di quasi niente: di tubetti di colore e di alcuni pennelli, di una tavolozza e di vasetti per i pigmenti, e per di più di una tela tesa dall’artista verso l’orizzonte in cui nulla deve divenire artificio o abitudine.

Dipingere è uscire dall’identità, da se stessi, preferire l’altrimenti che essere, fino a rischiare di non essere per niente in accordo col proprio secolo e con la contemporaneità. Di modo che sia possibile spendere parole per visioni sovversive che rendano finalmente l’artista capace di dimenticare ogni condanna a morte a ripetere dell’esecuzione artistica – “esecuzione” nella doppia accezione di creazione e distruzione. L’arte è così chiamata di continuo a reinventarsi contro un sistema riproduttivo che regola la vita dell’occidente. Bisogna resistere ai venti delle mode, rispettare ad ogni costo ciò che si ritiene piacevole nella propria ricerca. Il pittore, come lo intendo, ha contro di sé tutti i mercati e i mercanti, tutte le tendenze alla moda. Un pittore che sappia vegliare sulla notte del nulla, mentre il mondo della rappresentazione è distratto nella sonnolenta routine.

Nella scrittura fluida della pittura, invece, è spesso il colore a declinare la pasta di differenza, dimostrandosi, il colore intendo, come irriguardoso nei confronti delle varie sostanze ben distinte e assunte dalla rappresentazione. Una pittura che sappia condurre fino a sciogliere ogni caratteristico nodo e idolatrico argomento della scena rappresentazionale, e che sappia declinare ogni tratto drittissimo in un ghirigoro illeggibile, nonché cerchi strategicamente di operare una colata di materia pittorica configurata in un fronzolo dal colore dissestato e farfugliante, si renderà sotto lo scorrere degli occhi nella sembianze della scrittura, scorgendo con la visione i caratteri di ciò io chiamo artesto.

E se da un lato sembra esserci un incalzante e tignoso direttore di scena preposto al quotidiano ripetersi dell’azione – nell’attuale forma sociale, risulta “reale” solo e sempre ciò che si lascia ripetere! –, direttore che ha la persistente idea di non farci riemergere mai più dal quel materasso di sonno sul quale la rappresentazione obesa di Cultura si è adagiata insieme a noi ingombrandoci lo spazio e seppellendo, per una durata illimitata, la nostra facoltà di visione, atrofizzandola in pigre abitudini che spengono lo sguardo – abitudini condotte, il più delle volte, al bisogno pratico d’occasione fino ad accomodandarle in una realtà meramente espressa nella quale l’uomo, per di più, s’accontenta; dall’altro lato, fortunatamente, si è stimolati incessantemente ad una visione semiotica che ci permette, non soltanto di vedere le cose in un certo modo, da un certo punto di vista segnico – e che cos’è la scrittura o la pittura se non arti segniche riunite nella riflessione sui segni nonché attività sorelle di ricerca di ordine specificamente semiotico? – ma, soprattutto, ci dà l’abilitazione di rimetterci a scrivere. Sta di fatto che la semiotica consista proprio in questo atteggiamento critico, in quella particolare attitudine, in quella specifica tendenza dell’animale umano a ragionare sui segni propri e altrui e di essere l’unico responsabile (livello del mare e temperature fuori controllo comprese!) capace di ri-scrivere, di ri-configurare la superficie del mondo odierno attraverso la facoltà incommensurabile di disegno/pittura/scrittura.

Sfuggendo dalla condizione di prigioniero del mondo della rappresentazione – pur di contestare la propria cittadinanza di uomo avvertendo l’incessantemente attrito col mondo oggettivo –, l’artista e il suo mondo disegnato, raffigurato, per mezzo della pittura segnica o della scrittura “figurale” (detto “alla Deleuze” a proposito delle pitture colanti di Bacon), invadono il foglio, catturano ciò che è estraneo, ciò che dilaga dalla rappresentazione, prendendo il volo in uno svolazzo o in un arabesco, in un filo di scrittura che leghi in una pagina o in una stoffa le lettere di un alfabeto impossibile. Il quadro o il testo artistico o ciò che io nomino “artesto” – quest’ultimo nelle vesti verbali, non-verbali o miste: un romanzo o una poesia così come un ritratto o un paesaggio – si configura in un carattere atemporale, in un tempo fuori dal tempo, evitando di ripiegarsi su se stesso, pur di non finire in trappola e suicidarsi con due tratti di penna incrociati (gli stessi tratti con cui Malevic, in un suo noto dipinto, si liberò in un sol colpo dall’ingombro rappresentazionale della Gioconda ingigantita dalla superstizione e dalle leggende metropolitane dei mass-media).

Così come tra le righe ar/abili della scrittura letteraria, non tutto è trasparente, lampante o completamente dichiarato, così pure in pittura la partizione tabulare si riserva di senso rispetto a ciò che non si dà a vedere, rendendo l’opacità e la refrattarietà del segno icona alla luce e, per di più, proiettandolo in una visione immaginata, pensata nel campo visivo dell’altro. L’aspetto del mondo scritto o disegnato non è mai quello definitivo ma “una fase di approssimazione verso una forma futura” (Michelangelo).

E se è vero che la scrittura grafico-visiva costituisce il più efficace sistema di comunicazione fra i popoli, è altrettanto vero che la scrittura iconica fa vedere al mondo il disegno di ciò che altrimenti resterebbe invisibile, e soprattutto di ciò che la lingua non riesce proprio a dire se non nelle sue operazioni infinite di descrivere descrizioni – ripensate al Palomar calviniano a cui l’autore assegna il compito ingratamente infinito di descrivere il più piccolo granello della superficie di questo mondo: “o scrittore, con quali lettere scriverai tu con tal perfezione la intera figurazione, qual fa qui il disegno? … o se pur tu vuoi dimostrar con parole alli orecchi e non alli occhi delli uomini … non t’impicciar di cose appartenenti alli occhi col farle passare per li orecchi, perché sarai superato di gran lungo dall’opera del pittore” (Leonardo da Vinci).

Nella visione artistica, la fissità dello sguardo monoprospettico ordinario, risultante dall’acutezza costitutiva dell’occhio, è morta a monte dato che si basa su un’ottica selettiva e che non ci permette di focalizzare contemporaneamente tutti i punti di un campo visivo se non attraverso fulminei movimenti oculari che ricompongono nella memoria una immagine complessiva e globale come assemblaggio di una serie di fissazioni – per ovviare a questo limite ottico notoriamente Matisse impugnava un lungo bastone, alla cui estremità legava un carboncino, con il quale disegnava i suoi immensi fogli di carta o le enormi tele appese ai muri del suo studio, in modo che il suo occhio controllasse la forma nell’insieme –, sino a indurci ad un eccesso di visibilità e che ci porta spesso alla cecità da distrazione, quella stessa cecità messa abilmente in scena da Poe nella sua La lettera rubata.

Un occhio che vede, l’altro che ascolta: “Un giorno, nel bosco, qualcuno lì fermo a guardarlo dipingere, gli domanda ansiosamente: “Ma dove vedete, Monsieur, quel bell’albero che mettete qui?” Corot si toglie la pipa di bocca e senza voltarsi indica col cannello una quercia dietro di loro (Valéry, “Intorno a Corot”, in Scritti sull’arte, p. 139). Affrancata dalla logica della prospettiva ottica, la scrittura si dichiara innanzitutto iconica come condizione necessaria di produrre visioni che invitino a stimolare la facoltà di raffigurazione.

 

Luciano Ponzio

Artist-chercheur

Chiang Mai – Thailand, 2007

Chiang Mai University, Faculty of Fine Arts

 

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