Testo pubblicato sul catalogo Differimentismo (Edizioni dal Sud, Bari, 2005) presentato in occasione della mostra personale di pittura dal titolo "Lo Sguardo e L'Eclissi. Extra-grafie di Luciano Ponzio" (14-23 gennaio, 2005, "Artoteca" della Vallisa, Borgo Antico, Bari)

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Luciano Ponzio

PENSARLA ALTRIMENTI

 

"Il teatro della crudeltà

non è il simbolo di un vuoto assente,

di una spaventosa incapacità di realizzarsi

nella propria vita d'uomo.

È l'affermazione

di una terribile

ma ineluttabile necessità.

[...]"

(A. Artaud, Il teatro della crudeltà, 1947)

 

 

 

Questa sera andremo a parlare del rapporto che intercorre tra la visione artistica e la realtà come rappresentazione. Sembra che solo mediante la visione artistica sia possibile comprendere la realtà circostante come processo in divenire, come ciò che è vivo e non conclude, così da poter osservare effettivamente la realtà come vita e non come inerte ripetizione nella versione statica e regolata dalla rappresentazione. L'artista è ancora capace d'individuare l'insufficienza del mondo della rappresentazione, la povertà della sua organizzazione "logica", l'inadeguatezza del suo sistema basato sull'egemonia di un senso su un altro; un sistema, questo, che, inesorabilmente, incatena la realtà a necessità univoche che le sono estranee.

Tutti complici: assassini dei segni dell'arte nel nome della libertà e della rappresentazione!

Consapevoli di essere inscritti nella cultura del riconoscimento di sé — nella torva serietà, la Cultura è cosa seria —, individui si battono per una assurda identità e, chiusi nell'essere e nella rappresentazione, si tranquillizzano e s'addormentano in una idealità disincarnata, surgelata e devitalizzata.

Nella rappresentazione, la posa è assunta, la posizione è presa, irremovibilmente impostata, mai contestata. I soggetti sono ricorrenti, riprodotti e disposti in un certo ordine, secondo un'estetica scenica ideale per far "sedere" comodamente i personaggi. In un narcisismo collettivo, i parassiti dell'identità si sono fissati in sguardi di auto-ammirazione come quando, già a suo tempo, Narciso s'affogò nell'inganno d'imprigionarsi nel suo stesso rispecchiamento.

Cullati dal ritmo gradevole e del grazioso, dal melodismo corrente, dal nichilismo massmediatico, dall'economia dello spettacolo — in rappresentazioni visuali e virtuali — si è assunta la mielosa ripetizione come verità: il vero è sempre quello che si lascia ripetere! E qualcuno crede nella rappresentazione perché gliela danno da portarsela sotto braccio. La routine, l'intrattenimento, il quotidiano "televisivo" ripetuto all'infinito. Mesdames, Messieurs, j'ai le plaisir ce soir de présenter la REPRESENTATION: una nullità pienamente accettata in una nauseante esaltazione in cui gli individui, divorati dalla carriera di attività inutili, aspettano la pensione come massima aspirazione.

LA RAPPRESENTAZIONE È ACQUA STAGNANTE!

Pur di sottomettere il mondo, l'uomo ricorre a fatica a trucchi, mezzucci e antidoti per cercare a tutti i costi di vigilarne la "dimensione umana", di garantire sempre la verità e di umanizzare l'inumanizzabile (LA GUERRA). Con sapiente assassinio, isola gli oggetti, li rende oggetti, oggetti di comunicazione, elementi della rappresentazione; mette furtivamente in forma per poter riconoscere; inchioda le parole al commento in una inevitabile riduzione.

La visione artistica non fa altro che mostrare all'uomo la necessità di produrre un nuovo spazio impossibile, intellettualmente più ricco, che superi la limitatezza di un mondo morto in piedi. Attacco dunque al rozzo materialismo, all'idolatria degli oggetti attraverso il ripudio delle regole omicide commesse nella realtà. Creare un sistema successivo, un'altra architettonica, reinventare il mondo: la sua libertà e la sua pace.

Operare la violenza dell'astrazione — spesso rifiutata perché politicamente indecifrabile, o teoricamente indimostrabile — non significa esercitare creatività sull'esistente né, tanto meno, l'ennesimo tentativo di mercificazione dell'arte attraverso la produzione premeditata di sfigurazioni, autodistruzioni ed estinzioni nelle varie pratiche "artistiche" di tortura di immagini auto-celebrative e voyeuristiche della crudeltà umana (dall'arte di cattivo gusto alle immagini di tortura).

La tecnica è la carità che si offre all'artista; una mera invenzione, una mediazione, un compromesso per saldare intimamente arte e vita. L'artista ha superato l'antitesi tra arte e vita come opposizione-imposizione metafisica e ideologica. L'Arte e Vita sono qui e adesso! Il carattere e il culto metafisici della tecnica non costituiscono un privilegio. Anzi. Si è dimostrato come la tecnicità artificiale generi inumanità dall'industrializzazione alla militarizzazione del mondo.

L'artista non è in servizio! È, per eccellenza, il disertore della realtà come rappresentazione. L'artista è infedele alla realtà, al lavoro, alla cultura, alla lingua. Egli è sempre straniero, perduto, esiliato alla rappresentazione. Egli è straniero e refrattario a tutte le istituzioni: straniero persino alla propria patria linguistica! L'artista ha il compito non facile di sostenere l'estranietà, la non-appartenenza. L'artista è colui che, pur non cedendo all'immaginario, alle utopie, irresponsabili ed evasive, sa arrischiarsi continuamente; è colui che, con approcci "dilettanteschi" e da "lettore", apprende disapprendendo, non accettando niente di conosciuto, nulla di esistente (intendendo per esistente ciò che comunemente viene dimostrato solo attraverso la gravità e le sue leggi alle quali un corpo deve necessariamente sottostare). La scarsa capacità di esporre opere è una spiegazione alla sua estranietà al mondo dei consumi, alla società dei servizi, ai circuiti obbligati e titolari delle gallerie d'arte e dei suoi mercati.

L'arte è superflua. E l'alterità in essa si manifesta in ogni modo. L'opera, in questo senso, non opera. È un eccesso senza ritorno. L'opera rivela l'inoperosità dell'arte. Un'arte senza pubblico; non si costituisce né come cellula sociale né come opera monumentale. Tale inoperosità permette all'artista di disinteressarsi del tempo presente e di proiettarsi in un'extralocalità suprema. Gli artisti che oggigiorno si domandano o meno sulla contemporaneità dell'arte, generalmente dimenticano di porsi una questione vitale, e cioè: arte contemporanea, d'accordo, ma contemporanea a cosa? L'arte tutt'al più deve tendere all'inattuabile.

La pittura non è nata per descriverci l'uomo e quello che fa. Non deve ornare un testo e asservirlo. La pittura è il luogo primordiale e privilegiato di distruzione dell'imitazione, della rappresentazione. La pittura trascende ogni idealismo e sa oltrepassare il quadro della narrazione pur di acquisire visibilità artistica fuori dall'ordinario visibile. La pittura sa rendere sulla tela segni che non sono ancora del tutto spenti nel significato simbolico e nel patologico. Una pittura in cui l'azione, il movimento discute il testo, mai precisandolo, sottolineandolo, definendolo, distinguendolo, mai rappresentandolo. Lungi dal ricondurlo all'identificazione, tutt'al più all'irriconoscibile, al discorso senza fine.

Tra l'artista e l'opera avviene un corpo a corpo, un duello, un vis à vis. Il pittore della realtà dispera di rappresentare e non sa di non essere mai capace di realizzare il quadro sognato. Cerca d'impugnare un testo, sorvegliandolo, riunendolo, dominandolo, finendo col credere che la rappresentazione di questo lo rappresenti nelle idee, nei pensieri e nelle intenzioni. Tale artista non si differenzia poi tanto da quel noto pittore (Max Ernst) che nel dipingere un giardino, a quadro finito, accorgendosi irrimediabilmente di aver dimenticato di dipingere un albero, decise di far immediatamente tagliare l'albero! Come autore e come uomo, l'artista non dice nulla. L'artista, assente e da lontano, indossando umilmente la veste del tacere, ha il dono del parlare indiretto e sa lavorare sul mondo standone fuori. Un dono di parola, un dono in pura perdita: una gratuità incondizionata e senz'alibi. E l'opera d'arte si renderà d'un tratto e, spesso, senza che ce ne sia il bisogno.

Scrivere sulla pittura è sempre approssimativo e, talvolta, si sprofonda nella notte del nulla. Non si vuole questa sera uscire dal vago per cercare di precisare. In teoria non bisognerebbe dare nessuna definizione della pittura, pena il tradimento stesso del suo movimento e del suo modo di rendersi tormentato, labirintico, abissale. Tutto ciò che si è detto ha già cominciato ad intaccare l'impossibilità di definirla. Differire vuol dire anche disfare e spiazzare, situare diversamente, rendere l'Altro, l'altrimenti e, magari, altrove.

L.P.

Paris, 2004

 

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