Testo pubblicato in Differimenti, Mimesis, Milano, 2005.

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Luciano Ponzio

IO SONO UN'ICONA

 

"An icon is a sign which would possess the character

which renders it significant, even though its object

had no existence; such as a lead-pencil streak

as representing a geometrical  line"

(C.S. Peirce)

 

 

Fuori d’opera, la pittura non sarà mai domata entro gli istanti ammutoliti in cui il pensiero si compiace, perduto nel clamore di vite limpide! Benché il mondo le stringa alla gola, la pittura s’avventura fuori di sé e non dà luogo a compromessi per certificare la propria presenza. In tal senso, deve essere intesa nel movimento stesso del proprio straripamento così che essa possa proiettarsi ben oltre la pittura che non sa far altro che dipingere.

“Datemi una nuova vita”, è il grido del mondo d’oggi!

Basta vivere conformemente alle leggi di questi bianchi pasciuti, schiavi dei loro stessi imperi idolatrici che dominano in grembo al mondo come rappresentazione!

Trascinata fuori dal fango, la pittura, più di ogni altra arte, è il paradigma di tutte le cose, un’arte plurale — scrittura, musica, colore, disegno —, un’arte totale. L’opera artistica, il testo artistico, in quanto testo, tessuto, trama, tela, scrittura, è polisemica, cioè capace di concentrare un’enorme quantità di significanza — da significare pazientemente,  sia pure sempre parzialmente, il tempo necessario per rendersi percettibile —; e in uno spazio, sì ristretto ma, se pur limitato, al suo interno l’arte tutta riesce a rendersi modello di un mondo senza confini, realtà in un’altra realtà, come in una matreska. E il pittore-semiotico, geniale o non geniale che sia, può riflettere sulle tracce che un artista avrà modo di lasciare nel piccolo spazio in cui ci si muove ogni giorno.

Ecco qui la semiografia della pittura, i cui elementi semiografici si possono finalmente rendere sulla tela in maniera innumerevole e multiforme, segni fuori servizio — segni che non si fanno dipingere dal lunedì al venerdì! —, espulsi dal regime e dai guardiani della lingua.

Al contempo, la scrittura dipinta, nei suoi tratti contorti, si mostra astuto e indiretto stratagemma per colpire questo mondo, i suoi valori, la sua Arte, le sue norme, le sue attese e le sue pretese. La pressione della grafite ha modo e spazi per incidere meglio sulle sorti di un mondo indegnamente assoggettato alle leggi della rappresentazione.

Basta coll’inchiodare le parole al cappio di righe ammutolite! La scrittura, intesa come gesto e non come trascrizione orale, è sempre stata all’origine della creazione artistica. Non a caso, nell’arte orientale, il connubio tra pittura e scrittura è rimasto più stretto e “naturale”, tanto da incorporare la lettera nel dipinto, in combinazioni grafiche, o con parole disegnate.

In questo spazio incondizionato, i segni si mostrano come ritmo, suono, tracciato, composizione e non più come forme fulminate in una simbolicità condotta fino alla nevrosi. Nel suo gesto d’iscrizione, di movenza e manualità, l’arte rappresentativa deve forzare se stessa a ritornare al suo significare per sé, ad un’origine senza originale, senza arché,  in uno stadio precedente la sua stessa nascita, verso l’innato del significato simbolico, della traccia imbevuta d’idolatria. Come sembiante di ciò che non si lascia afferrare, il segno icona richiede una continua correzione che impedisce allo sguardo, permettendogli di posarsi e riposarsi su di essa, d’ingannarsi perché schiavo della sua stupida mania.

Descrivere un dipinto a questo punto? E a che pro? Non c’è niente dietro la superficie dei quadri, tutto è lì, non manca nulla! Sotto la propria scorza,  la pittura iconica non teme  alcuna scottatura e si lascia guardare solo di traverso.

L’opera artistica segue la propria verità altrove, al di là della grande tela dipinta che ci tocca sopportare ripetutamente tutti i giorni — è già ieri, per scrivere un’assurdità —, un quadro dagli scenari di fame e di guerra — scenari sempre più spettacolari grazie a mani esperte che li confezionano con tanto di illusioni ottiche ed effetti speciali.

VOLGARE IMBROGLIO!

FENOMENO DA BARACCONE!

TRUFFA DA VENTRILOQUO!

La spartizione della luce, riecheggiante la biblica separazione, ha per troppo tempo irradiato una falsa luce sui mendicanti di vista — il girarrosto celeste ha fiammeggiato per molto meno! La pittura sopporta oggi tutte le accuse d’illogicità, d’infedeltà, restando perciò impassibile alla parola d’ordine “rappresentazione”.

Né LOGICA,

Né GERARCHIA,

Né CRONOLOGIA,

Tra la MANO, l’ORECCHIO e l’OCCHIO!

Tra otografia e visione, la verità pittorica disdice il panorama, sbeffeggiandolo e deridendolo sarcasticamente.  Per la sua forza di trascinare via il supporto col potere di evocare,  nella somiglianza iconica, nel differire del segno, la pittura oltrepassa se stessa, e il pittore e i suoi mezzi, per non rimanere ingarbugliati nella tela, non possono far altro che dichiarare scacco.

La pittura sbordante conduce le sue sbavature al di fuori del cocciuto telaio che vorrebbe ogni tratto,  gesto e colore, morto e concluso in esso.

L’artista, pur disperando dell’oggetto veridico, sa che oggi l’ottica oculare ordinaria è rappresa in certe idee d’esecuzione artisticamente represse. Attratto e distratto dai colori, il pittore può lasciarsi andare in cromografie, geroglifici, segni immaginari e pittografici della scrittura dipinta. Il fuori-senso infunzionale e inattuale prenderà senso, più senso, iconicamente, in maniera differita, altrove.

Solo una pittura che viva, che disegna, che scriva, potrà pensare di risuonare senza fine, percorrendo, fuori-campo, tragitti destabilizzanti, dalle linee sempre mute, mutevoli e differite.

 

L.P.

Milano-Bari-Lecce, 2005

 

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