Versioni di questo testo sono pubblicate nelle riviste: Lingue e Linguaggi (Lecce, 2008); e in Athanor - Globalizzazione e Infunzinalità (Roma, 2009), quest'ultima versione è accompagnata da una serie di 6 disegni intitolati Lisible/Visible.

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Luciano Ponzio

EL BAUL DE LOS RECUERDOS

Annotazioni sulla visibilità

Renè Magritte, La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James), 1937

 

Si dice che costui (Parrasio) sia venuto in competizione con Zeusi, il quale presentò un dipinto raffigurante acini d’uva: erano riusciti così bene,  che alcuni uccelli volarono fin sulla scena [i dipinti erano di norma esposti in teatro]. Lo stesso Parrasio, a sua volta, dipinse un drappo,  ed era così realistico che Zeusi - insuperbito dal giudizio degli uccelli - lo sollecitò a rimuoverlo, in modo che si potesse vedere il quadro.  Ma non appena si accorse del suo errore,  con una modestia che rivelava un nobile sentire, Zeusi ammise che il premio l’aveva meritato Parrasio. Se infatti Zeusi era stato in grado di ingannare gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui, un artista.
(Plinio Il Vecchio)

 

Comincerò con una specie di premessa: qualunque lingua ci capiti di ereditare, essa è uno strumento e, insieme, una trappola. Non ricordo quando ma in ogni caso abbastanza presto ho cominciato a pensare che l’unico linguaggio soddisfacente per il mondo intero sarebbe dovuto essere iconico, non insediato in nessuna nazione ora esistente e non incardinato ad alcun sistema segnico di appartenenza,  essendo quest’ultimo sempre filtrato dall’ideologia dominante che s’insinua con lusinghe e regali pur di corrompere e sedurre.


Il linguaggio che cerca di creare un equivalente verbale (la lingua), che cerca con uno sforzo adeguato e minuzioso, di passare dal non verbale al verbale, dal non dicibile al dicibile si esalta in una pretesa assurda. L’impotere della lingua di trovare la parola giusta di un oggetto raggiunge contemporaneamente l’estremo dell’esattezza toccando l’estremo dell’astrazione e indicando il nulla come sostanza del mondo. Così, se scrivendo mi fermo e faccio per riavvolgere il nastro della lettura, se faccio per rileggere, m’accorgo che la penna non ha lasciato traccia sul foglio e le pagine sono ancora bianche!


Il punto è che la realtà è un linguaggio. Ciò significa che la lingua d’oggi è limitata: essa non riesce proprio a dire – o costringe a dire esclusivamente in base ai suoi codici, modelli e registri – poiché, il linguaggio della realtà conserva un’alterità residuale mai totalmente interpretata – seppur interpretabile infinitamente – dovuta proprio ad un caratteristico spessore segnico, espresso nella sua elevata iconicità, data, quest’ultima, da una materialità inestricabile, irriducibile ad ogni tentativo definitivo di nominazione, di significazione e di designazione. Voglio dire che dall’altro lato della lingua c’è qualcosa che cerca di uscire dal silenzio, e lo dice attraverso il linguaggio.


Pertanto, si potrà dire questo: per paradosso dobbiamo riconoscere le lingue solo come una sopravvivenza del vecchio mondo dell’oppressione. Non sarebbe male sognare nebulosamente che un giorno si possa viaggiare per il mondo e, con discorsi ardenti e per forza di ragionamenti e concetti, condurre e convincere gli uomini a seppellire le vecchie lingue di uso comune per configurare la logica irriducibile di un linguaggio iconico – la pittura è un esempio – che, momento per momento, oggetto per oggetto, viso per viso, renda visibile l’invisibile, che dica l’indicibile, che esprima l’impronunciabile, che mostri l’impossibile di una alterità incommensurabile: un linguaggio della visione che tenda a proporsi programmaticamente come ricerca aperta e, al tempo stesso, attenta a non coagularsi in una sola direzione ma sempre pronta a rispondere alla sfida della molteplicità. Le generazioni future impareranno a leggere, e un giorno troveranno nel linguaggio una scrittura più diretta della lingua, un mezzo di espressione del tutto nuovo e illimitato nelle sue possibilità. Al contrario, potrei dire che quando tutto avrà trovato un ordine e un posto – un termine – nella mia mente, comincerò a non trovare più nulla degno di nota, a non vedere più quello che vedo, perché vedere significa percepire delle differenze. La visibilità del mondo è legata alla discontinuità, all’evento (per esempio, la pace del mondo rispetto alla guerra).


Attinente al lavoro creativo di rendere visibile, ed in particolare al rapporto pittura-scrittura, c’è un dipinto, dal nome La riproduzione vietata del 1937, in cui Magritte dichiara la resa di fatto dell’impossibilità della pittura di riprodurre pedissequamente la realtà: la riproduzione le è vietata! Il ritratto impossibile è qui abilmente dimostrato nel gioco di un personaggio ritratto di spalle che specchiandosi, invece di rifletterci il volto, restituisce nuovamente le spalle: il personaggio ritratto si ritrae, secondo il significato doppio di questo verbo italiano.


Così come la pittura di Magritte, pur fedele e di alta precisione, diviene metafora dell’occhio ridicolizzando quella pittura con lo scopo pretenzioso di rappresentare gli oggetti così come sono nella realtà – e non mostrarli come li vediamo –, pongo all’attenzione un particolare del dipinto appena citato che invita ogni tentativo di interpretazione sulle vie della letteratura. In particolare il percorso interpretativo ci conduce a Edgar Allan Poe e al suo testo Les adventures d’Arthur Gordon Pym (il testo è visibile nel dipinto, posato sulla mensola difronte allo specchio). Questo testo letterario è particolarmente significativo perché riesce nello spostamento di condurre il genere diario verso la scrittura, rimettendolo abilmente in gioco e sulla scena letteraria. Il testo Les adventures d’Arthur Gordon Pym è raccontato en arrière in prima persona dal personaggio protagonista, Arthur Gordon Pym: tuttavia il romanzo si conclude con una enigmatica visione che può aver tratto in inganno molti studiosi e scrittori, poiché non si riesce del tutto a capire se Gordon Pym muoia nelle circostanze di un naufragio oppure sopravviva per poi raccontare tutto al suo ritorno. Sta di fatto che Poe scrive il romanzo-cronaca sulla base delle conoscenze acquisite dal racconto di Arthur Gordon Pym e parla in una nota a parte, dove concede importanti informazioni e indizi criptati su Gordon Pym, della sua tragica scomparsa, non risolvendo l’enigma della sua morte. Diciamo quindi che anche in letteratura, come in pittura, lo scrittore per irridere i testi di rappresentazione deve lottare contro l’inespremibile.


Un altro esempio tra il visibile e la visione può essere operato sul dipinto Guernica. Come è noto, il ritratto più efficace del dipinto Guernica è condensato nel titolo che Picasso scelse per questo suo capolavoro, a cui venne attribuito il nome dell’omonima cittadina spagnola, oggetto di crudeli bombardamenti.


Tuttavia, nei testi di visione, un titolo non è cosa essenziale del dipinto: ignoravo sin da piccolo le righe scritte ai piedi delle vignette: la mia occupazione favorita era fantasticare dentro le figure nella loro successione e nel gioco di incastri. E seppure poggio la focale del discorso su ciò che il nostro occhio vede (su un titolo di un quadro, in questo caso) direi che non sono solamente le immagini delle lettere che noi vediamo, ma ciò che noi “vediamo” nel momento in cui leggiamo, sono altre immagini che produciamo: visioni.


Per quanto possa chiarire la critica, un percorso interpretativo suggerito da un anonimo scrittore, potrebbe condurre la parola “guernica” al gioco di parole tra le sens et le son: “guère n’y ça”, contrazione di “guère (il) n’y (a) ça”: frase francese che tradotta in italiano significa:  “proprio questo non c’è”! Rileggendo “l’artesto” verbale “g-u-e-r-n-i-c-a”, come un titolo provocatorio, viene fuori più o meno la seguente operazione: “ciò che cerchi nel dipinto Guernica proprio non c’è” – vale a dire “cercalo altrove!”


Da ciò nasceva un paragone, fatto per puro divertimento, ma che in realtà è secondo me abbastanza importante, tra la Guernica e la fumosa e famosa pipa di Magritte, Ceci n’est pas une pipe, opera della quale lo stesso autore dichiara candidamente: “Se avessi scritto sotto il mio quadro ‘Questo è una pipa’ avrei mentito!” (1928/29). Allora questo richiede assolutamente una chiave ludica che potrebbe suonare così: Ceci n’est pas Guernica. Il movimento va ricercato nello scrigno “guère (il) n’y (a) ça”, una frase-matrioska che porta ad una specie di invito a “cercare altrove!”, un invito prodotto dal momento in cui si fa slittare il significato del titolo altrove, lontano dal contesto della suddetta cittadina spagnola di Guernica, che nulla avrebbe più a che vedere con il vero gioco del dipinto, teso sempre all’inattuabililità,  rendendosi opera d’arte, un testo sempre inconsapevole e irriguardoso del proprio tempo (atemporale).


Ciò fa sì che il dipinto sia condotto alla deriva, ai limiti e alle estreme conseguenza dell’opera d’arte, opera che sa parlare un linguaggio proprio e totalmente espresso nei toni di un futuro futuribile, in una prospettiva chiaroveggente. Una specie di connessione tra la facoltà di visione, visionaria, nel senso che dicevo prima, cioè di produrre una visione, è peraltro resa dallo stesso René Magritte in un noto dipinto datato 1936 e intitolato La chiaroveggenza. Ora devo dare un’altra smentita: cioè l’impiego del titolo – anche qui come in Guernica –, la produzione linguistica non dà spiegazioni al dipinto, non illustra l’immagine: l’architettonica dell’artista-veggente è qui espressa nel “tradimento delle immagini”, pienamente reso in questo dipinto più che in altri dipinti magrittiani, perché capace riassumere il rapporto che ha interessato gran parte della fenomenologia del XX secolo. Questo rapporto intercorre tra tre punti fondamentali: la visione dell’artista/autore, l’oggetto/referente e la resa pittorica/visione. In questo dipinto, Magritte dipinge un artista — che nella fisionomia del volto gli somiglia tanto da poter dire che si tratterebbe ancora di un autoritratto — seduto di spalle a chi guarda, e difronte a un cavalletto. Il personaggio dipinto fissa l’immagine di un uovo poggiato sull’angolo di un tavolo mentre la sua mano è sospesa nell’azione di dare (quadro nel quadro) un ultimo tocco di pennello all’immagine di un uccello! È chiaro che Magritte, in quest’opera, alludesse alla percezione a distanza nel tempo e nello spazio (precognizione) del veggente, che somiglia alla visione dell’artista nei confronti del mondo degli oggetti in un rapporto capace di rendere lo stesso altro (l’uovo già reso uccello, appunto).


Dunque queste tre componenti (artista/autore, oggetto/referente e resa pittorica/visione) non sono affatto distinte una dall’altra nella forma di ciò che individuo come “artesto” o, se si vuole, del “percetto” (detto alla Deleuze, come risultato di una percezione, come raggiungimento del concetto nell’attività artistica di un pittore-pensatore).


E se “l’oggetto nuoce alla pittura” – come già avvertì nel 1912 Kandinskij in un particolare aneddoto in cui, tornando nel suo atelier, rimase affascinato da un quadro, il suo, che non riconobbe perché poggiato su di un lato inatteso, ruotato su di un verso inedito, dove il tutto diventava insolito (v. Kandinskij 1999) –, Magritte, dal ’26-’27, proseguì la ricerca esordendo con la prima personale esponendovi Ceci n’est pas une pipe. Nell’occasione Magritte dimostrò subito un allontanamento dal cubismo (ancora fedele all’oggetto) di Braque e Picasso per interessarsi (soprattutto negli anni Trenta, quelli “di Parigi”) al problema fra visibile e mistero (“il mistero è nel visibile”, dirà lo stesso Magritte), fra realtà e raffigurazione pittorica, fra sogno e realtà (“la vera realtà risiede nel sogno” proseguirà Breton nei suoi esercizi di surrealtà, mostrando, nel ’32, l’omologia tra percezione del mondo e realtà espressa attraverso il sistema dei vasi comunicanti – teoria peraltro raffigurata magistralmente in un disegno di Diego Rivera nel 1938), fra il “mondo dei segni” (verbali e non-verbali) e il “mondo reale”. Le teorie surrealiste sfociarono in seguito, nel ’29, con “La révolution surréaliste” e il manifesto Les mois et les images: titolo che fu ripreso dall’amico Michel Foucault in Le parole e le cose, il quale si dedicherà, non solo allo studio sulla suddetta pipa magrittiana fornendoci gli strumenti di critica (“il disegno non designa”) della pittura come mimesi della realtà (qui rimando il lettore a prendere visione di un altro dipinto di Magritte Il tentativo dell’impossibile del 1928, che riassume pittoricamente il nocciolo della questione), messi peraltro in luce in un preziosissimo saggio dal titolo omonimo Ceci n’est pas une pipe, ma anche s’interesserà particolarmente – parlo del testo Le parole e le cose – agli aspetti che hanno interessato direttamente tutti quegli artisti che hanno dovuto fare i conti con le questioni che scaturiscono in relazione ai rapporti, sempre reciprocamente coinvolti, tra visione e sguardo, tra raffigurazione e rappresentazione, nel triangolo immaginario e dialogico disegnato sui tre punti fondamentali artista-tela-realtà. In particolare mi riferisco, non solo allo studio che Foucault dedica all’opera pittorica di Manet, ma soprattutto alle prospettive interpretative che egli fornisce di Las Meninas di Diego Velazquez, tela in cui sono riassunte e concentrate tutte le tematiche della logica della pittura (pittura/ritratto, pittura/autoritratto, pittura/specchio, pittura/trompe-l’oeil, pittura/mimesi, pittura/sguardo, pittura/visione, pittura/prospettiva, ecc.) e non a caso divenuta un’opera importantissima anche nella nicchia degli artisti più noti, nonché presa seriamente in considerazione – per tornare sui passi del nostro discorso – proprio da Pablo Picasso che ne riprodusse una versione cubista nel 1957, intitolandola Las Meninas (dopo Velazquez).


Picasso, come altri, aveva sempre mostrato interesse verso quegli elementi che costituiscono la strategia estetica tra arte e vita omaggiando con le proprie illustrazioni Il capolavoro sconosciuto di Balzac: opera, quest’ultima, che mette in scena i medesimi elementi ormai divenuti archetipo di un modello che ritorna spesso a far parte di altre numerose trame di noti testi letterari – penso a Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe, Il ritratto di Nikolaj Gogol’, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde,  L’opera di Emile Zola – che hanno voluto affrontare in letteratura questioni simili che s’intrecciano sulla impossibile rincorsa di unire arte e vita, fino alla pretesa di farle coincidere nella visione dell’artista con risultati pressoché disastrosi e suicida. Come già detto, la letteratura non fa che confermare come il movimento dell’opera, nella forma d’arte dell’artesto – per come lo intendo – eviti di pedinare a regime i discorsi della rappresentazione ponendosi tutt’al più in dialogo con un tempo altro, il tempo grande, immaginando soluzioni al di là del presente, al di là del mondano.


Se la penna rincorre il pensiero, l’idea, il concetto, il pennello, d’altro canto, rincorre il percetto. Lo scrittore, pittore o romanziere che sia, s’incarna nella figura del giocoliere-guerriero che per mezzo di linguaggi non-verbali, verbali o misti, rende la raffigurazione nelle forme della scrittura, una scrittura che non vuole esaurire il mondo, anzi: esattamente il contrario: vuole nutrire il mondo con un filo di inchiostro, con un colpo di spatola, avvolgendolo e coinvolgendolo in un sogno visionario.


È bene chiarire che per scrittura non s’intende quella meramente intesa, cioè relegata a trascrizione che raggelerebbe, congelebbe il sonoro, il parlare per visualizzare le spazializzazioni temporali della lingua, trascrivendo il pensiero. Scrivere è, invece, pensare, ragionare per immagini, per rapporti, per volumi e per forme, per realizzazioni spaziali, per analogie, per similitudini. A tale proposito, salta alla mente il ricordo del pittore giapponese Shusaku Arakawa, il quale aveva dipinto una serie di grandi quadri pieni di frecce in movimento su fondali bianchi e luminosi e che, in una mostra, che si tenne nel 1985 alla “Galleria Blu” di Milano, invece del solito catalogo, distribuì un largo foglio di carta blu piegato in quattro, con un testo di Italo Calvino – testo, che fu più tardi ripubblicato (1995): “Parlo della mia mente – spiega Calvino – perché è l’unica che posso avere in mente; e parlo della mente di Arakawa, che certo è quella che ha in mente lui”.


Il modello linguistito cede il passo anche al linguaggio letterario. Noto esperimento letterario, divenuto anche cinematografico ad opera di François Truffaut, è il testo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury: un romanzo di fantascienza in cui l’autore affronta il tema delicato è legato alla comunicazione: dalla gestione delle informazioni e dal controllo della società, all’abuso di potere e all’appiattimento della coscienza. L’ambientazione è quella di un ipotetico futuro nel quale leggere libri è considerato reato e, per contrastare tale reato, è stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco impegnato a bruciare ogni tipo di volume. Il titolo del romanzo – non a caso – si riferisce alla temperatura a cui la carta brucia spontaneamente (secondo le unità di misura imperiali): 451 Fahrenheit corrispondono, appunto,  a 232,78° C.


Fahrenheit 451 ha numerose analogie con il romanzo 1984 di George Orwell: in entrambi i libri si fa un uso massiccio della censura nei confronti della lingua, dove però quest’ultima è organizzata in modo differente: mentre in 1984 tutte le notizie vengono costantemente falsate ad opera di un ministero delegato – il “Grande Fratello” –, nel romanzo di Bradbury è bandita qualsiasi informazione scritta su supporto cartaceo. Pertanto, i libri sono materiale illegale, e come tale, tenuto nascosto nei posti più disparati dai lettori fuorilegge per far fronte alle continue incursioni dei pompieri incendiari. Se in 1984 vi è il “psicoreato”, cioè vietare anche solo di pensare in modo divergente dai dettami del governo totalitario sotto la dittatura del Grande Fratello, in Fahrenheit 451, il lettore diviene fuorilegge: come dire: chi legge diviene fuori-legge, ormai al di fuori della lettura ordinaria che non sa far altro che leggere pedissequamente; fuori dalla scrittura che scrive, cioè fuori da ciò che le è pre-scritto di significare; operando al di fuori della procedura semantica così da rinunciare all’apparenza dello scritto per diventare apparizione nella quale, colui che articolerà la propria attività visionaria nella scrittura, potrà finalmente liberarsi creando nuove idee, azioni, modi di vivere e di pensare per una diversa considerazione del mondo e delle sue possibilità. Così, in entrambi i testi di Orwell e di Bradbury, i libri e la letteratura sono definitivamente banditi dalla società, proprio per impedire agli uomini di conoscere l’infelicità pensando poi di poter costruire un mondo diverso da quello esistente.


Il protagonista di Fahrenheit 451 è  proprio un Milite del fuoco, Guy Montag, che ha il compito di rintracciare chi si è macchiato del reato di lettura, di eliminarlo e di bruciarne i libri. In questo futuro alternativo tutte le case sono costruite con tecnologie che le rendono ininfiammabili e quindi il solo compito dei vigili del fuoco è quello di eliminare i libri e i loro possessori (che spesso decidono di essere bruciati vivi insieme alle loro biblioteche segrete). In questa società viene assicurato l’ordine sociale con regole ben precise: tutti i cittadini rispettosi della legge devono utilizzare la televisione per istruirsi, informarsi e per vivere serenamente al di fuori di ogni inutile forma di comunicazione. La televisione come elemento ossessivo della società viene utilizzata dal governo per definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Montag, che per anni è stato un vigile del fuoco modello, un giorno commette un’improvvisa infrazione: decide di leggere un breve trafiletto di un libro che dovrebbe bruciare e, attirato dalla sua prima fugace lettura, salva alcuni libri, iniziando a leggerli di nascosto. La decisione di infrangere le regole gli viene suggerita dalla conoscenza di Clarisse, una ragazza sua vicina di casa, che mostra un modo di vivere anomalo: l’anomalia sta nel fatto che i familiari di Clarisse, la sera, non guardano la televisione, che non possiedono – sul tetto della loro casa non ci sono antenne televisive! –, ma trascorrono il tempo parlando tra di loro dimostrando di possedere un’allegria e spensieratezza difficile da comprendere e facilmente invidiabile. Non olmologata al sistema, la famiglia di Clarisse sembra felice a differenza di quella di Montag – una famiglia che esiste soltanto nella dimensione virtuale (la Grande famiglia del teleschermo –, che non ha figli e la cui moglie, che ha appena tentato il suicidio ingerendo barbiturici, non ne vuole. In una società in cui il conformismo e l’assenza di fantasia costituiscono la regola e dove il tempo costituisce un eterno presente, Montag, dopo aver riflettuto a lungo, prende coscienza di non amare né realmente di conoscere quella donna, e capisce che nella sua vita c’è qualcosa di profondamente sbagliato. La lettura dei libri che ha sottratto lo conducono a scoprire un nuovo mondo, ma lo spingono inesorabilmente verso la rovina sociale: sua moglie lo abbandona e i suoi ex colleghi lo cercano per punirlo. Nella parte finale del libro il protagonista è braccato dagli abitanti della città che, tramite la televisione, scrutano le strade attendendo il suo passaggio per poterlo denunciare alla polizia. Montag riesce a fuggire e si rifugia in campagna dove incontra dei vagabondi (gli “uomini libro”) che come lui amano i libri e sperano un giorno di poter far risorgere la cultura dalle ceneri di quella società. Il libro si chiude con un bombardamento atomico, che distrugge le città: la nazione di Montag ha iniziato infatti a combattere una guerra con una nazione avversaria, ma i cittadini non si erano preoccupati del conflitto, dato che la televisione non li aveva mai informati sul suo effettivo andamento e sulle possibili catastrofi ad esso collegate. Montag e i suoi amici si incamminano verso una nuova città ove poter tramandare le loro conoscenze e i libri che hanno imparato a memoria.


Verso la metà di giugno del 1970, François Truffaut apprendeva dai quotidiani che “La Cause du peuple”, giornale della sinistra proletaria, di cui il filosofo Jean-Paul Sartre aveva appena assunto la direzione, era stato posto sotto sequestro e che la polizia arrestava ed incriminava coloro che diffondevano la pubblicazione. Il 20 di giugno, Truffaut era così per strada, insieme a Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, a vendere il giornale ai passanti. Chiamato dal tribunale di Parigi a rispondere di questo fatto, nella testimonianza che l’8 settembre 1970 il regista inviava per iscritto al Presidente della Corte scriveva tra l’altro: “Non ho mai fatto attività politica, e non sono maoista, più di quanto non sia pompidoliano, perché mi è impossibile nutrire alcun genere di sentimento per un capo dello Stato, chiunque esso sia. Vero è però che amo i libri e i giornali e che sono piuttosto affezionato alla libertà di stampa e all’indipendenza della giustizia. Così com’è vero che ho girato un film intitolato Fahrenheit 451 che descriveva, con l’intento di stigmatizzarla, una società immaginaria in cui il potere brucia sistematicamente tutti i libri; ho dunque voluto far coincidere le mie idee di cineasta con le mie idee di cittadino francese.” ( in F. Truffaut, Autoritratto, trad. it. Torino 1989, p. 190).


Nell’ipertrofia dei mezzi di comunicazione di Fahrenheit (schermi televisivi e telefoni abbondano in ogni casa), Truffaut vuole mostrarci il paradosso della mancanza di comunicazione che caratterizzerà la società di un futuro che è già presente.


Una sorta di atmosfera visuale ricorre in Baraka (1992) di Ron Friecke, un film poco noto in Italia, dai grandissimi risvolti semioetici, e che non si serve di parole, del verbale, come tra l’altro suggerisce il suo sottotitolo: “Un mondo al di là delle parole”. Il film è montato in una serie di sequenze combinate magistralmente in spettacolari immagini di altissima qualità fotografica (catturate in 6 continenti, 24 paesi, 152 luoghi) in cui viene ripresa la superficie terrestre attraversata per immagini e da punti di vista diversi (sociale, culturale, religioso, storico, artistico). Per conto anche delle indicazioni del regista, si dà massima libertà interpretativa alle immagini che scorrono sotto gli occhi dello spettatore, il quale, inevitabilmente coinvolto, viene spinto a stimolare il proprio occhio in maniera critica nei confronti del mondo attuale. Dall’alba al tramonto, in un giorno normale del pianeta Terra, Friecke contrappone la bellezza della natura, dosata in tempi musicali lenti e distesi che accompagnano gli scenari, con la progressiva distruzione umana del pianeta cadenzata quest’ultima in un ritmo musicale incalzante e veloce, sino a mostrare l’autodistruzione umana dai teatri di guerra all’arma nucleare vista come prima apocalittica possibilità di annientare l’umanità, combinando eventi in parte museificati per la Storia e, altri, putroppo, in corso d’opera (il film si riferisce a 16 anni fa, ma la situazione d’oggi non sembra essere diversa da allora!). Qui vasti orizzonti di luoghi incredibili della natura sono subito messi sulla scena del film, abilmente alternati in sequenze di spazi sempre più ridotti del quotidiano, attraversato, quest’ultimo, nelle sue esigenze tecniche sulle vie del pratico e dell’indispensabile, offrendo all’osservatore contrasti che descrivono polemicamente le architetture asettiche messe in piedi con metodi di riproduzione meccanici – l’allineamento seriale di “conglomerato cellulare” a “conglomerato cellulare” – e rivalutando, di contro, l’artisticamente inconfondibile, l’originalità artistica espressa soprattutto nel lavoro manuale e artigianale. Insieme alle immagini di coloratissime popolazioni non ancora intaccate dalle “civilà progredita” (e non ancora cancellate dall’omologazione dominante) – aborigeni australiani e riserve indiane in America sono ormai teatrini rappresentazionali, i segni lasciati come residui di un massacro etnico in versione democratizzata –, si insinuano le ricche e grige metropoli che non dormono mai, addestrate ormai nella riproduzione dell’identico, in una realtà dal respiro meccanico e ormai ansimante del mondo capitalistico – molto chiaro in una scena del film e che riprende il titolo Baraka, parola traducibile in varie lingue come “respiro di vita” –, tenuto in vita nonostante i numerosi ammutinamenti della società: vittime di guerre, sfruttamento minorile, i senza-tetto, gli affamati e gli assetati sparsi in più parti del mondo dove i pochi uomini di una certa valuta continuano a predare finanche sulla dignità umana – dai mercati del sesso (pacchetti turistici offerti ai “turisti non-turisti”), alle fabbriche non dichiarate e tenute nascoste dall’Occidente che abusa della mano d’opera a basso costo non concedendo alcun diritto a chi cerca a stento di sopravvivere ai margini di un sistema capitalistico che li mette costantemente alle corde, togliendo la vita a chi già non ce l’ha: note strategie di un potere assassino messe in atto nei sud del mondo, in Africa, in America latina o nel sud-est asiatico).


Con le tasche piene di banconote, tutti oggi sappiamo cos’è il denaro: nessuno è preservato dalla corruzione del denaro e dalla pretesa della civiltà moderna dello sfruttamento che distrugge, che impone codici etici con la guerra, speculando e approfittando sulla povertà da far scontare sulla pelle altrui.


Se eserciti di descrittivi si sono orientati verso attività più produttive, là dove gli individui cristallizzati nella logica degli interessi sono assolutamente addestrati all’allineamento pedissequo al regime, bisognerebbe opporvi una scrittura anticapitalista e critica nei confronti della produzione-merce prima che questa realtà circoscritta alle abitudini spengano del tutto la visione. Di fatto, la potenza arrogante capitalistica cede bruscamente il passo sotto l’effetto di uno sforzo troppo intenso: quello di voler essere sempre e comunque l’unico modello del mondo: capitalismo “chiavi in mano” e con un manuale di istruzioni per l’uso. Il capitalismo è ormai in via di decomposizione, un’appendice di realtà. D’altra parte, volendo tracciare una linea visionaria, la mappatura del mondo viene meno fino a saltare del tutto come se all’hardware di una società capitalistica si è preteso di installare un software estremamente particolare, di innestare cioé il sistema operativo semiotico specificatamente umano – la facoltà di scrittura, appunto (detta anche capacità sintattica o linguaggio) – che ha per sua natura interna delle potenzialità incalcolabili, senza prezzo e che non possono essere assimilate nella logica rappresentazionale. E ne abbiamo la verifica laddove la macchina si è assunte le funzioni tecniche, semplificate al massimo nella divisione del lavoro: essa non ha ridimensionato l’uomo, ma ha segnato – la linea di demarcazione – l’aumento del tempo disponibile e fatto intendere all’artista in particolare che è libero di trattare il materiale del mondo come più gli piace, a patto di riversare in esso forme assolutamente inedite.


Dai processi di riduzione – beni in moneta – l’arte si tira fuori dall’economia della lingua e dalla mercanzia moderna: l’artista prende una posa atopica, una posizione anomala che non rientra nei piani del sistema, superandolo.


Il mercato è quello che c’è – e te lo becchi! –: il distorcimento dei tempi musicali è uno dei prodotti più lampanti che abbia escogitato il mercato costringendo le registrazioni sonore entro i limiti di un disco, o meglio, entro i limiti di un discorso, in funzione di un dominio, di un mercato, come padrone assoluto della materia.


Fortunatamente, la stima mercantile in arte non ha parametri precisi. Non è, per esempio, come l’oro, che si avvale di una duplice fissazione al giorno per stabilire il prezzo al grammo. Il prezzare del metallo giallo in Europa avviene nella quotidianità, a Londra e a Zurigo. Determinato il prezzo del valore quotidiano, è facile quantificare quello del lingotto. In pratica, basta una moltiplicazione. Il quadro, o l’arte in generale non può essere posta sul piatto di una bilancia per una lettura a peso, per cui, il collezionista, il mercante, l’appassionato d’arte hanno dovuto studiare qualcosa di diverso, ma possibilmente di buona precisione, per offrire un valore reale all’oggetto preso in considerazione.


Va detto che il valore artistico di un’opera non sta neanche nella sua composizione chimica. Allo stesso modo, al pittore non interessa la quantità tossica di colorante al cadmio contenuta in un giallo limone o in un rosso veneziano: se così fosse i nostri intenditori e fabbricanti di colori risulterebbero i più grandi critici stretti-di-fronte di tutta la storia dell’arte o i più famosi artisti grasso-ventruti del pianeta Terra.


Tuttavia, è vero il contrario: un artista può dedicare la propria ricerca per un colore che non esiste (non ancora) nel mondo del visibile, quello della rappresentazione; l’esempio è offerto da Yves Klein, detto “Yves Le Monochrome”, che compose chimicamente il colore battezzandolo “International Blue Klein” (IKB), depositandolo all’ufficio brevetti francese, e divenuto il segno che contraddistingue gran parte della sua opera.


Il pittore ha da tempo proclamato la dittatura dell’occhio – l’occhio tassonomico, votato alla stabilità strutturale –  e ha sottolineato con forza la necessità di quel libero gioco che è appunto l’arte.


Come noto, la rinascita della pittura coincide con la corrente pittorica detta “impressionismo” – è il critico Louis Leroy che li battezza impressionisti (in senso dispreggiativo e come sinonimo di superficialità) – che si sviluppò in Francia tra il 1867 e il 1880. Il gruppo di pittori del movimento impressionista cominciarono a costituirsi già nel 1860, erano accumunati dalla stessa ricerca di una pittura differente (en plein air) e fondamentalmente antiaccademica. Difatti, prima dell’impressionismo la pittura era disciplinata dalle regole accademiche della prospettiva e della razionalizzazione del disegno e dello spazio, ed il pittore poteva avere successo solo se le sue opere venivano accettate dalla giuria del Salon. Gli artisti guardarono così non più al Rinascimento italiano, ma alle culture extra-europee, dell’arte orientale, cinese e giapponese, alle culture primitive, africane, precolombiane e oceaniche. Grande influenza e contributo al fenomeno impressionista ebbe l’invenzione della fotografia (Degas appena ebbe la possibilità si procurò una Eastman-Kodak) che in parte risolse gli obiettivi della pittura rappresentativa e mise in discussione la figura del pittore che per secoli è stato chiamato a rappresentare fedelmente la realtà.


La rivoluzione stilistica e tecnica adottata dagli impressionisti non a caso prese spunto dalle nuove teorie di scomposizione dei colori in primari e secondari espresse dallo scienziato M. E. Chevreul. I colori vennero usati allo stato puro (escludendo il nero) con piccole pennellate separate senza miscelarli, che si combineranno poi nell’occhio dell’osservatore (Impessionismo scientifico di Seurat e Signac). È così che gli artisti poterono raffigurare con l’autonomia del colore i mutevoli effetti di luce della natura che Monet, dopo il 1889, portò alle estreme conseguenze, quasi di pittura informale.


Procedendo in direzione dei problemi intorno alla “forma” e al “colore”, oggetto di studio di alcuni pittori che pretendevano di semplificare e sintetizzare la pittura entro schematizzazioni scientifiche (fisico-chimico-ottiche), l’artista visionario ha ormai da tempo dichiarato come le prove ottiche non possano in alcun modo dettar legge alle gamme coloristiche del pittore. A tal proposito, Malevic si mostra decisamente contrario ad un approccio fisico-ottico della pittura — “i compiti e i fini della scienza ottica sono una cosa, quelli della pittura e dell’arte in genere un’altra” — perché ciò condurrebbe inevitabilmente la tela a somigliare presto a una tabella scientifica!


La logica scientifica possiede senz’altro un codice attraverso cui riconoscere la realtà ma di certo non può pretendere tutta la verità del mondo. E se da un lato vi è la messa in discussione del mondo fatto solo da enunciati affermativi, dall’altro lato si ha il movimento visionario di raggiungere il disegno segreto del mondo: un movimento senza fine, inesaudibile di configurare la textura, la “trama del mondo”, non nella forma simbolica ma nella sua resa di superficie inesauribile.


I tentativi di risolvere il problema della percezione e del valore di opera d’arte entro partiture che le sono estranee (ricordo le mere interpretazioni neurobiologiche nel caso di Semir Zeki) si rivelano degli esperimenti privi di soluzione e perdipiù non in grado di definire il volore di opera d’arte in un qualunque quadro che renda tutta una bellezza incommensurabile. Semmai ciò spetterebbe al semiotico o al filosofo, coloro cioè che fanno vedere attraverso la parola ciò che visibile non è. Per questo è possibile oggi considerare Galileo più uno scrittore che uno scienziato: accusato di far vedere il movimento al mondo, movimento riassunto nella celebre frase rivolta alla Terra: “Eppur si muove!”, tuttavia ritenuta temeraria e sovvertiva della filosofia aristotelica e per le Sacre Scritture.


Tornando al mercato dell’arte, rimane il fatto che scambiare il valore di lavoro artistico contro un salario è un’arte mercenaria. L’arte non si riduce a mestiere a meno che non si rientri in quella vergognosa routine di mestieranti che fabbricano dipinti confezionati. Con ciò non si esclude che l’attività artistica non sia esente dalla tendenza tecnico-costruttiva — che in fin dei conti è quella del realismo pratico — ma è proprio qui che l’arte scompare!


Per completare questa panoramica di accanimento di adesione e allineamento pedissequo al regime, segnalo la divertente e tragica storia raccontata nel brano letterario pirandelliano – peraltro interpretata magistralmente da Totò, nella versione cinematografica intitolata “Questa è la vita” – La patente, tratto dalla raccolta di novelle (Novelle per un anno), scritto nel 1922, nella cui trama il personaggio protagonista, Rosario Chiarchiaro, licenziato a causa della sua fama di jettatore, al colmo della disperazione, non potendo vivere se non legittimizzando la sua fama di jettatore, fece di tutto pur di farsi riconoscere ufficialmente come possessore di un “potere funesto e invincibile” e ottenere in tal modo la sua “patente”: “La patente!” grida infatti il pover’uomo “Sarà la mia professione! Io sono stato assassinato, signor giudice! Sono un povero padre di famiglia. Lavoravo onestamente. M’hanno cacciato via e buttato in mezzo a una strada... con la moglie paralitica... e con due ragazze... Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a far la professione di jettatore...”.


E prendendo spunto da Totò, perché non ricordare il cinema di poesia di Pier Paolo Pasolini, il cinema più sperimentale e rivoluzionario, intendo, quello di “Uccellacci uccellini” e quello dei cortometraggi: come “La terra vista dalla luna” (in Le streghe, 1966); “La sequenza del fiore di carta”, e “Che cosa sono le nuvole?” (in Capriccio all’italiana, 1967).


Della ricerca cinematografica e del “cinema di poesia” di Pier Paolo Pasolini, appartiene di diritto il film “Uccellacci uccellini”, in cui vengono peraltro presentati sia la coppia Totò-Ninetto Davoli, sia la sigla – titoli di testa e titoli di coda – cantata ancora una volta dalla voce inconfondibile di Domenico Modugno.


Qui, la sequeza dei fotogrammi mostra Totò e suo figlio Ninetto che passeggiano per le periferie e le campagne romane e, improvvisamente, durante il loro cammino, incontrano un corvo parlante che, a sua volta, narra la storia di Ciccillo e Ninetto (anch’essi interpretati da Totò e Ninetto), due monaci francescani a quali San Francesco ordina di evangelizzare i falchi e i passeri. I due frati non riusciranno a raggiungere il loro obiettivo, perché, pur essendo riusciti ad evangelizzare le due “classi” di uccelli, non riusciranno a porre fine alla loro feroce rivalità: per questa mancanza verranno rimproverati da San Francesco ed invitati ad intraprendere nuovamente il cammino di evangelizzazione: “Non solo questo mondo non va, ma bisogna anche cambiarlo”.


Chiusa la parentesi del racconto, il viaggio di Totò e Ninetto prosegue; il corvo li segue e continua a parlare in tono intellettualistico e altisonante. In un contesto fortemente visionario, s’incontrano altre persone, una carrellata di classi sociali che sembrano passare dallo stato di uccellacci a quello di uccellini: alcuni proprietari terrieri che ordinano a Totò e Ninetto di allontanarsi dalla proprietà privata e, siccome i due protagonisti non ne vogliono sapere di obbedire, fiscono poi per darseala a gambe perché costretti da colpi di fucile; una famiglia, che vive in condizioni assai degradate, a cui Totò intima di abbandonare la propria casa con la frase lapidaria “busnes is busnes”; un gruppo di attori itineranti a bordo di una Cadillac; i partecipanti al “1° convegno dei dentisti dantisti”; un uomo d’affari di cui Totò è debitore; In seguito, prima i due si ritrovano ai funerali di Togliatti e poi incontrano una prostituta. Alla fine del film, i due, stanchi delle chiacchiere del corvo, lo uccidono e se lo mangiano e una frase lapidaria accompagna la triste sorte – la sorte di tutte le menti scomode – del volatile intellettuale: “i maestri son fatti per essere mangiati in  salsa piccante”.


In “Che cosa sono le nuvole?” (in Capriccio all’italiana, 1967) di Pasolini, ricorrono gli elementi poetici nell’espressione cinematografica in bilico tra favola e realtà ma continua è l’evasione dalla realtà presente. A parte “La sequenza del fiore di carta” interpretata dal solo Ninetto Davoli, in “La terra vista dalla luna” e in “Che cosa sono le nuvole?” vi è ancora una volta la partecipazione della maschera di Totò riscritta però rispetto alla sua veste popolare e comica e restituita invece nelle sembianze del tutto inaspettate: in “Che cosa sono le nuvole?”, rivisitazione dell’Otello di Shakespeare, partecipò, come poi anche in Uccellacci uccellini, Domenico Modugno, questa volta come attore in una scena cantata, iniziale e poi finale, nelle vesti del di uno spazzino-cantastorie. In questa scena iniziale riappare tra l’altro il già discusso dipinto di Diego Velasquez Las Meninas, qui reso come cartellone del film con l’inserzione della “scritta-lancio”: ‘OGGI’, ‘CHE COSA SONO LE NUVOLE?’, ‘REGIA PIER PAOLO PASOLINI’. Se a Totò toccherà vestire i panni del burattino del perfido Jago, Pasolini consegnerà a Ninetto Davoli le sembianze di Otello, a Laura Betti quelle di Desdemona, e, alla coppia comica Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, quelle, rispettivamente, di Cassio e Roderigo. La storia è recitata da un gruppo di marionette, finché la rappresentazione non è interrotta dal pubblico che, nel momento più drammatico, irrompe sulla scena e fa a pezzi le marionette di Otello (Ninetto Davoli) e di Jago (Totò). Lo spazzino (Domenico Modugno) getta le due marionette in una discarica, dove i due fantocci rimangono incantati a chiedersi “che cosa sono le nuvole”.


Eppure, molte, all’epoca, furono le critiche negative, benché Pasolini abbia anticipato la crisi degli ideali che hanno animato i movimenti degli anni ’60, profetizzato l’alienazione e l’appiattimento culturale a cui avrebbe portato la televisione.


Se Pasolini parla del successo come persecuzione, è abbastanza chiaro come ogni artista rifiuti gli onori e le rappresentazioni pubbliche difronte all’idea di rappresentare qualcosa, di essere, in qualche modo, istituzionalizzato. È il caso emblematico di Ryan Larkin, straordinario disegnatore canadese del cinema di animazione – insieme a Norman McLaren – nominato all’Oscar nel 1968 per Walking, sprofondato poi in una spirale di autodistruzione che l’aveva portato a vivere per strada chiedendo l’elemosina (scomparso l’anno scorso, il 16 febbraio). E, per restare nel mondo del cinema di animazione, forse ancora qualcuno non sa che la creazione del topo più famoso del mondo è in gran parte merito di Ub Iwerks, superbo disegnatore di certo più dotato artisticamente di Walt Disney, quest’ultimo, dalle indubbie capacità imprenditoriali, partì come disegnatore di biglietti da visita e solo poi decise di costruire sul mercato una macchina di animazione fortemente indirizzata al grande schermo che annientava, contemporaneamente, e in maniera a dir poco dittatoriale, ogni tipo di concorrenza cinematografica.


Ovviamente l’artista sa anche come poter utilizzare l’arte mercantile senza praticarla e senza implicarvisi, poiché egli, per natura, si ritiene “non in sevizio” o “fuori-servizio”, avendo il privilegio di non lavorare nel tornaconto di un salario: ecco perché possiamo quindi dire che l’uomo di mestiere non gioca, l’artista ancora può permetterselo!


Oltretutto, bisognerebbe precisare che la Land Art, corrente artistica detta anche Earth Art o arte ecologica che nacque negli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70 – parallelamente al movimento artistico dell’arte povera sorto in Italia –, è stata espressione artistica che incominciò a contestare, non solo dell’oggetto d’arte come prodotto per la borghesia (già contestato dai ready-made duchampiani), ma soprattutto ha saputo diporre gli elementi della controversia storica nei confronti del grave errore di credere che la galleria sia l’unico spazio dell’arte. In tal senso, la provocazione artistica è operata mediante interventi svolti direttamente in spazi aperti e su vasti territori (deserti, laghi gelati, prati, cieli ecc.) nonché utilizzando materiali effimeri che conducono spesso a fissare l’opera attarverso riprese fotografiche o filmate come un’unica e sola testimonianza dell’evento d’arte. L’opera d’arte non più come parte accessoria e decorativa della realtà ma come evento, enunciazione irripetibile, imprevisto.


Ciò che risulta subito evidente e che, nell’erogazione del “reale”, lo spazio dei segni tende a dissolversi per lasciare il posto a quello della rappresentazione che riflette i significati e scompone le similitudini, facendo sorgere il nuovo ordine della identità, queste ultime, marcate ferocemente nelle tragedie delle differenze (extrema ratio: la guerra!).


D’altra parte mi piace ricordare l’infunzionalità nell’esperienza ludica di Pino Pascali, artista nato in Puglia, in un paese della provincia barese, che mise in opera i giocattoli di guerra, recuperati nei ricordi dei primi giochi infantili, costruiti con mucchi di oggetti trovati per casa, nel tempo in cui un fagiolo diventava una pallottola, una pentola un elmetto: è qui, nell’arte, che finanche l’arma bellica fa cilecca: in Pascali l’arma manca alla sua funzione, il perfetto (solo esteticamente) ordigno bellico s’offre senz’alibi e fa soffrire la visione seria della grave imperfezione di non sparare!


A questo punto possiamo porre la questione su queste basi: la mano e l’occhio sono guidate dalla scrittura, e non il contrario: nell’atto dell’artista di osservare, gli oggetti perdono il loro nome. In questo senso l’attività artistica è un cantiere aperto, una tela incompiuta e senza fine a cui l’artista lavora tutti i giorni: ecco perché le opere d’arte sono immortali; perché il loro esempio non ha mai fine, rendendosi quindi sempre indecifrabili completamente in un dialogo sempre sospeso e ambiguo.


Possiamo quindi concludere: autori “visuali” con linguaggi verbali e non-verbali riflettono sul punto di vista, attraverso un “metapuntodivista” di ordine semiotico, in cerca di una scrittura come rivoluzione permanente: un tentativo impossibile di rovesciamento senza sosta, operato nel continuo rinnovamento dei quadri in cui l’artista parla con una voce che è quella del futuro inimmaginabile, in un linguaggio disegnato non ancora identificato dal mondo d’oggi, costellato di congetture e visioni.


E a questo punto, l’acqua del discorso non può che risalire il suo corso e tradire i segreti delle parole sull’onda della scrittura.

 

Riferimenti bibliografici:

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Magritte,  René, Tutti gli scritti, Feltrinelli, Milano 1979.
Malevic, Kazimir S., Scritti, Milano, Feltrinelli, 1977.
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Luciano Ponzio

Artist-chercheur

Sydney, 2008

Chiang Mai University, Faculty of Fine Arts

 

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