Testo pubblicato in Differimenti, Mimesis, Milano, 2005.

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Luciano Ponzio

CONTRAIDOLA

 

“Ehi,
uomo,
la terra stessa
invita al valzer!


Su, ricama il cielo a nuovo,
inventa e metti in mostra nuove stelle,
così che, graffiando freneticamente i tetti,
verso il cielo si arrampichino le anime degli artisti”
(V. Majakovskij, Ehi!, 1916)

 

 

 

Sperando di riuscire a farlo in maniera conveniente, un artista si chiede, spesso preoccupato, se vi siano motivi sufficienti per prendere la parola al cospetto della pittura. Si dice preoccupato, perché egli dubita di poter indicare con la parola le vie da seguire in pittura, pittura che si contorce senza lingua sapendo parlare un linguaggio proprio.


Come unica giustificazione di artista, lo conforta tuttavia il pensiero che un discorso sulla pittura possa avere il compito, in qualche modo, di intensificare alcuni segni dipinti. Se egli riuscirà in questo intento, un suo discorso sulla pittura potrebbe avere un senso.


Tuttavia, l’artista sa che, nel suo faticoso e impossibile tentativo di precisare con la parola le fasi di un processo creativo, mai definitivamente riuscirà ad uscire dal vago del pennello ribelle che, arruffato e silenzioso, trascina il suo tormento. Vago perché, durante lo sviluppo di un lavoro artistico, l’artista spesso fa di tutto per evitare il descrittivo, la designazione, il mimetico, il simbolico, quali residui ulceranti di un certo realismo. Ed ecco che, alle sudice tracce della rappresentazione, egli propone e oppone sulla tela gli effetti indeterminati di alcuni tratti volutamente dislocati, trasfigurati, slittati, sfocati, sfuggenti e differiti.


Mesdames, Messieurs,
La linea della verità trovata, contorta e raddrizzata in plotoni di termini, è travestita in abito da sera da cenci azzurri della necessità. La misera rozzezza umana in veste di risultato razionale tende a far crollare intorno ad una idea un mondo ormai ansimante.


L’essere umano si ripete, e il suo possedere e accumulare confini, identità, capitali, non fa altro che condurlo irrimediabilmente ad uno scadimento senza alcuna possibilità di scampo. La caduta di civiltà è tale — oggigiorno in toni violenti, negli orrori della guerra — che si avverte un mondo sempre più nostalgico della sua pace. L’arte insorge, stanca di sottostare al padrone e di essere ricondotta all'incancrenire dell’uomo rispetto allo slancio vitale della creazione o dell’invenzione artistica.


Uff, che allegria! Avvinghiati al presente, incrostati di vecchiume inerte e inespressivo entro angusti schemi irrigiditi, avvelenata è questa vita: noia sonnolenta, assuefacente banalità. Laddove l’occhio degli uomini si arresta appagato, all’artista spetta il compito non facile di non affermare, al pensiero degli ottimisti, che questo è, di tutti i mondi, il miglior mondo possibile.


TERREMOTARE I CONFINI DELLA RAPPRESENTAZIONE!


Suvvia, uomo rammollito! Datti forza per l’inevitabile ritorno al tuo grigiore quotidiano. Dimentica il mondo e colui che gli tiene le briglie tirate. Sappi abbandonare per una volta ogni forma di sicurezza, il tuo portafoglio, il tuo tornaconto, il preferito punto di vista e il comodo angolino da dove ti figuri questo mondo, deponi per un istante il tuo sguardo padrone e svagati nella visione incontrastata della creazione artistica.


Abbasso i padroni della vita, abbasso il loro amore, abbasso la loro arte, abbasso la loro religione, abbasso il loro regime, abbasso i loro idoli: abbasso la rappresentazione!


Questo vuol essere tutt’altro che un incoraggiamento accademico, protocollare, convenzionale: il lettore smetta d’aggrapparsi per spasmi a mere convinzioni e vecchi valori per fini terapeutici — l’uomo cade spesso nell’errore molto diffuso di accontentarsi della “parte che gli è toccata suonare”.


L’artista sonnecchia nel disegnare scenari. Ma come colui che rischia sempre, egli sa cavarsi d’impiccio ed è, forse, più felice di chi non crea, di chi non può liberarsi creando (Paul Klee) perché conosce più di un modo, non solo di affaticare il comune lettore, ma soprattutto di trovare escamotage per disertare l’umiliante rappresentazione, scoraggiandola, scuotendola, squilibrandola, contestandole una irrigidità ormai insostenibile e asfissiante.


È ora il tempo di spezzare il recinto della rappresentazione e tramutarlo in uno squarcio d’invocata alterità; operare un’apertura, uno scarto, una fenditura: aprire un varco oltre il presente. Vano è stato, è e sarà ogni tentativo di raggiungere la definitiva stabilizzazione dell’irrappresentabile raffigurazione.


Ah, maledetti i falsi esteti da strapazzo che, sempre gonfi di Cultura, considerano l’Arte una caritatevole simulazione dell’estetica rappresentazionale. L’artista ha un totale disinteresse per la “contemporaneità” dell’arte e, tanto meno, si pre-occupa di un’arte dettata dal leggìo della realtà, un’arte annodata al guinzaglio di ideologie autoritarie e logocentriche — a loro volta risultato di storture del mondo capitalistico.


L’artista non si ritrova nei circuiti della rappresentazione né nei processi “moderni” per una commercializzazione della creatività. Al solo pensiero del tempo che ha dovuto perdere per guadagnare, all’artista stridono i denti; il suo vero lavoro è nelle nubi, in un’attività di ricerca corroborante, immateriale e di straniamento, avulsa da ogni appiglio col “reale” — peraltro non volendo trarre da ciò alcune conseguenze di tipo politologico.


L’arte rifugge le inquadrature visive che ne rallenterebbero e ne annasperebbero il suo passo ardito nel tentativo di sconvolgere la logica dell’universo. Per ravvivare i colori del mondo l’artista si trova ad operare per scioglilessici, sintassi slegate, per sovrapposizioni e per interdipendenze tematiche: una scrittura fuori dell’ordinario visibile. In una sequela di segni non conclusi, di tratti e punti da congiungere, l’artista semina la pittura dell’irrappresentabile, una pittura che non rispecchia i contemplatori d’arte ma che gratuitamente si offre in mirabili frammenti, frammenti incapaci di cose pratiche nonché sempre pronti a scompigliare l’immagine-prototipo di questo mondo.


Di una pittura non-rappresentazionale, dell’irrappresentabile, non si dà rappresentazione, ma può ben esserci esposizione, perché già inevitabilmente esposta, impossibilitata a sottrarsi, in un coinvolgimento di cui dà mostra nel suo tendere alla raffigurazione. La raffigurazione dà la possibilità all’artista di rendere un testo il cui tessuto non sia la registrazione della realtà (mera trascrizione). Solo così l’artista di questa tessitura avrà modo d’inoltrarsi verso la scrittura, una scrittura sdoppiata e demoltiplicata; una scrittura contro gli assalti dell’imbavagliamento, contro i dettati, i testi pre-scritti, le parole e le immagini imposte e impastate.


La pittura si fa scrittura — eseguita orchestrando, nell’alternanza strumentale — tacere e ascolto, otografia e visione, de-scrittura e ri-scrittura. Con dissonanze incise e talvolta abbozzate conduce ben presto il supporto alla rovina, crea la raffigurazione, una specie di contro-immagine, di controidola, incessante e indefinita protesta contro le leggi della rappresentazione.


E rende sempre di nuovo il tacere al posto del rumoroso silenzio.

L.P.

Verona-Bologna, 2004

 

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