Testo esposto come manifesto nel corso della mostra "Configurazioni di scritture senza dimora", presentata da Carlo A. Augieri (Ass. artistico-socio-culturale "Raggio verde", Lecce, 17-27 giugno 2006). Una versione di questo testo è stata presentata in occasione del "Festival della modernità", convegno organizzato dall'Università Internazionale del Secondo Rinascimento - Fondazione di Cultura Internazionale Armando Verdiglione, e pubblicata col titolo La scrittura senza fissa dimora, in Modernitas, atti del convegno "Festival della modernità" (Milano, 22-25 giugno 2006), Spirali, Milano, 2006, pp. 453-464.

english version

 

Luciano Ponzio

HORS-D'ŒVRE et L'ARTIST-CLOCHARD

La scrittura senza dimora

 

"L’arte non vi chiede se piace o non piace,

come non vi è stato chiesto niente quando sono state create

le stelle del firmamento. […]

Ma per voi è difficile scaldarsi davanti al volto di un quadrato,

abituati come siete al calore di un bel musetto."

(Kazimir Malevic)

 

"Che cos’è disegnare? Come ci si arriva?

È l’azione di aprirsi un varco attraverso un invisibile muro di ferro,

che sembra trovarsi fra ciò che si sente e ciò che si può.

In che modo bisogna attraversare questo muro,

dato che non serve a niente colpire con forza?

Bisogna minare questo muro

attraversandolo con la lima,

lentamente e con pazienza."

(Vincent Van Gogh)

 

Molte sono le motivazioni di una breccia artistica, uno squarcio capace di bucare il velo, di aprire le pieghe, di attraversare il muro di un diorama truffatore a grandezza naturale.

La principale è quella di estromettere la convenzinalità dall’arte, ogni significato simbolico come effige e centro nevralgico del sistema, imperiale timbro del mondo ricorrente che pretende la conformità degli oggetti rappresentati nella loro interezza improntandoli sul codice della prospettiva lineare come condizione necessaria di attestazione simbolica.

La seconda è rinunciare artisticamente all’indicalità, alla conoscenza per immagini della realtà pensata per tracce – secondo le regole dell’enigma, come gioco dalle soluzioni progressive –, una realtà messa insieme a pezzi in figure che sembrino, se non vive, almeno ricavate da qualcosa di buono e che le legittimi. Nell’era dell’alta definizione, né il sistema né il potere sfuggono all’obbligo simbolico e indicale, pena il perdere la faccia – è “questione di immagine”.

Questa realtà qui fossilizza la ricerca del movimento artistico. L’indottrinamento per il convenzionale e l’indicale è ormai giunto a un tale grado da risultare estremamente raro trovar qualcuno che non si mostri il difensore più accanito di questi idolatrici valori. Temendo che la realtà vacilli sotto i loro piedi, gran parte della gente, barando con se stessa, si lascia assorbire in una realtà altamente estrinsecata, sepolta nell’ottica quotidiana fatta di oggetti desolati e figure costrette. Prestidigitazioni, queste, che vorrebbero sterilizzare e sbrigare con vile astuzia tutto il lavoro artistico ad attenersi al programma di mostrare la realtà ma che, per fortuna, non distoglie totalmente l’artista-ricercatore dalla volontà di pensare. E se la mondanità è un pullulare di segni assolutamente poco interessanti, in cui i più non creano riproducendo l’eterna nullità, agli occhi dell’artista-ricercatore, invece, la rappresentazione si mostra sempre più come la gogna nella quale, preventivamente, l’ideologia dominante – oggi col nome di capitalismo come superficie del nostro tempo –, con regolamenti di conti, tribunali ed esclusioni, vorrebbe rinchiudere ogni gesto di artisticità pur di privarlo della sua forza scrivente, incisiva.

E se nell’autoritratto, qualche artista ancora impantanato cerca disperatamente la propria immagine nei frammenti di uno specchio e si presume rappresentato, il proprio volto rivolto gli si rivolterà sempre contro, rivoltato nella raffigurazione differita e iconica!

Se la via diritta gli è preclusa, cosa può farci l’artista-ricercatore se per lui creare è resistere e se, per questo, vede forse meglio di chi non crea, di tutti quegli onesti impiegati della realtà che, per dovere d’ufficio, in una corsa verso il bene e la felicità proprie, reclamizzate alla disperazione, si fanno spazio a gomitate pur di imporre il diritto a un proprio posto e di un appartamento a tre stanze con bagno? – e per di più diventando sempre più sciocchi di giorno in giorno e magari, in gran parte del pianeta, nel corso dell’anno, durante alcuni i mesi, per via dell’ora legale, anche un’ora in anticipo rispetto allo standard ufficiale!?

Sebbene ogni tentativo di distanziamento estetico non raccolga molti consensi,  la scrittura dipinta, la pittura scrivente dalla potenza apocalittica svela criticamente una realtà edificata intorno al ministero dell’informazione, una realtà che, dinnanzi ad ogni estetica speculativa, metafisico-idealista, è ansiosamente intenta a ricondurre a principi universali, assoluti, ipostatici e a criteri aprioristici la complessa fenomenologia artistica: mondo piccolo-piccolo, semplice, smontabile, catalogabile. Perché regolamentare l’arte senza sapere ancora cosa sia? Perché decifrare il cielo e i quadri o passare dietro fondali stellati e tele dipinte?

Se venisse abolito questa realtà qui non esisterebbe più l’arte? Niente affatto! Sarà la sola nozione di arte ad avere fine, non l’arte che, al contrario, ritroverà vita nuova dal momento in cui  non avrà più un nome (Dubuffet)! Non sa di nomi la vita e, pertanto, dell’arte il mondo non sa ancora nulla ma sa soltanto delle opere d’arte. E che altro potrebbe consegnarsi, se non col nome di opera d’arte, al mondo stanco e del tutto commercializzato dell’arte contemporanea?

In barba al tribunale della ragione, che concentra il proprio interesse sull’oggetto e che articola esclusivamente l’indagine sulla dicotomia segno-oggetto, pur di ottenere con antidoti e acidi corrosivi la messa a punto di mezzi semantici per meglio aggredire e fissare la realtà nell’equazione rappresentazionale – essenzialmente eliminatrice, e dunque, impoverente –, la scrittura dipinta si rende testo inclassificabile e in esso è rivenuta la necessità di condurre la ricerca artistica a un livello semiotico-semiosico capace, quest’ultimo, di comprendere meglio ciò che è altro dall’identico, ciò che differisce come “icona”. La scrittura dipinta – attività di ricerca, lavoro metapittorico e spostamento verso luoghi sintattici – è un sistema segnico costituito da intrecci e motivi che gettano e tracciano, distesa sulla pagina, la raffigurazione iconica. L’attraversamento semiotico di dipinti e disegni attesta, dunque, la continuità di espressione tra pittura e scrittura. In tale visione, i soggetti della scrittura-pittura, senza fissa dimora, liberano la vita dalla prigione vergognosa dell’uomo. Qui anche l’ombra si colora – in colori mai visti e impronunciabili – e, frammento nel frammento, di segno in segno, la scrittura si dichiara come cifra del sovvertimento!

Sulle roataie della rappresentazione si è posta disgraziatamente la tendenza, soprattutto di critici-recensori e storici dell’arte, di imparentare l’attività artistica a fenomeni extraestetici (autobiografici, psico-biografici) dissolvendo spesso il testo artistico negli scaffali di un mero documento storico. Ciò sembrerebbe riprodurre l’abito, il malcostume comune, dal carattere “poliziesco”, che, dovendo per forza arrestare qualcuno, afferra e sigilla per ogni evenienza cose e persone che non hanno un alibi e che si trovano sventuratamente a passare in quel dato momento nel luogo del reato –  e spesso insieme a coloro che per caso passeggiavano giù nella strada vicina! Questi signori schedatori e catalogatori non sono altro che i soliti disperati maniaci divorati dall’ansia di sapere se Van Gogh beveva assenzio mentre dipingeva o quanto tempo trascorreva fissando il proprio sguardo al sole. Nel modo più reciso, l’opera d’arte non dovrebbe intrattenere nessun rapporto con l’artista-autore. L’arte tutta disgusta le categorie catalogate e ogni almanaccatore che la vorrebbe imbalsamare nel contesto di uno spaccato temporale-reale. Disorientando la storia dell’arte e sfidando gli storici dell’arte a dire il contrario, si potrebbe fare osservare loro il fatto che la “Gioconda” sarebbe stata comunque dipinta anche se Leonardo non fosse mai nato!

È bene sapere che occorre non sapere niente di linguistica perché l’artista possa scavare e scovare una lingua nella lingua. D’altro canto, se si considera che l’opera d’arte è un sistema di segni reciprocamente condizionati, reso stilisticamente o esteticamente unitario dall’assunto artistico, risulta chiaro che i metodi descrittivi della linguistica sono inadeguati a far comprendere i procedimenti poetici e che il ricercatore deve pertanto assumere un punto di vista semiotico. La parola, quindi, non viene considerato dal linguista, se non sullo sfondo della lingua pratica.

E se siamo tutti d’accordo che quanto maggiore è l’importanza dei fatti comunicati, tanto più un giornale risulta interessante, ecco svelata la differenza tra gli artisti e articolisti, o tra scrittori e scriventi, in quanto, tutti gli articoli che espongono “i fatti”, benché scritti anche abbastanza bene, non saranno altro che reminescenze dedicate a particolari argomenti del loro tempo, ma senza alcun valore artistico. In arte la verità della vita è presente più di quanto nella semplice mostra dei fatti. Qui soggiace tutto a un angolo visuale particolare, che si attiene al programma di mostrare la realtà.

L’arte della scrittura batte e ribatte una cosa sola: un mondo altro. La scrittura dipinta improvvisamente si riprende, riprendendo a far chiasso, parlando dell’imparlabile, emettendo lingue simultaneamente incomprensibili, come già successe una volta in Babilonia.  Non essendoci più punti di riferimento e questioni nominali – così come il sole, per i naviganti, si alza ora dall’uno, ora dall’altro lato del mondo –, tanto vale il diroccamento del mondo idolatrico, realistico e pittoresco.

Che cos’è l’artisticità o il valore artistico di un’opera? Tenendo ben presente il ridottissimo numero di coloro che scrivono – su nove undicesimi del mondo della rappresentazione nessuno scrive –, l’artisticità o il valore artistico di un’opera è resa in un quel particolare testo – e, per inciso, solo in quello – dal carattere eccezionale, capace di scrittura, una scrittura dalla proliferazione tesa alla desemantizzazione della paralizzata, desolante e vuota lingua degli uomini dalle labbra pesanti e già abituate a articolare chiaramente entro la società. Qui solo la scrittura costringe l’arte a cambiare gioco, a cambiare le regole del gioco. Una scrittura che sfrutti la possibilità artistica di concedersi un riposo dai testi di informazione e che sappia eseguire continue operazioni di spostamento e smottatura intente ad insolentire la realtà esibita, come eccesso di realtà, come sopraffusione del reale ma che è, al tempo stesso,  omissione di realtà – come lo schermo televisivo che, benché sia spento, rimane impressionato sulla superficie del mondo odierno: e la TV non smette più! Ed ecco svelato come il mondo della rappresentazione non sa scriveve ma solo recitare, recita tutto, dando avvio così a un processo generale di appiattimento di tessuti vivi in tessuti di parata. Sicché, si potrebbe dire, che la maggior parte delle cose che accadono nel mondo della rappresentazione non costituiscono evento, poiché quest’ultimo sta nell’ordine della discontinuità e della rottura (come suggerisce Baudrillard). La scrittura è, dunque, l’unico vero arresto violento tra tensioni e turbolenze su un mondo che, nascosto nell’evidenza – come la lettera rubata di Poe –, va sempre più a rotoli; un arresto violento nella catena dell’informazione, un arresto violento del corso normale delle cose, di cui la guerra fa parte: una guerra diffusa così tanto nell’aria che non s’avverte più – un dolore fisico ormai quasi del tutto abolito dall’anestesia rappresentazionale – e, contro di essa, è venuta a crearsi una sorta di vaccinazione, una immunità rappresentativa dall’atteggimento estetico – la guerra attuale è l’attestazione dell’accettazione terrestre degli eclatanti imbrogli di guerra, tramati dai più alti e materialistci motivi di gabinetto.

Distruggere il vecchio per costruire il nuovo? Niente affatto! Un grande artista non deve avere molte idee nuove, ma averne una sola: che le idee espresse precedentemente sono del tutto insufficienti!

A questo punto è chiaro come i controlli esercitati a partire dalla lingua come produzione-consumo del discorso controllato, selezionato, organizzato e distribuito secondo un certo ordine funzionale alle procedure di “esclusione”, mettano alla porta la parola della scrittura,  messa ai margini perché al di fuori del dominio. Dal canto suo, mal sopportando l’odore di chiuso, l’imitazione pappagallesca e l’aria di sufficienza, la scrittura, al contrario, propone la parola come enunciazione irripetibile – l’artista che inventa un colpo, un tocco non lo ripete come farebbe invece un mestierante! – , e in grado di farla risuonare tra gli spazi vuoti della lingua di potere. Sicché, il tratto della matita, correndo sulla carta, rende disegni e pitture che sono soprattutto motivi per interrogare gli interstizi della rappresentazione (è la pittura degli intermezzi, “guardando tra i rami” si direbbe alla Matisse). Spingere più il là la mina per segnalare una frontiera ancora invisibile, schizzare bozzetti per non credere più ai propri occhi e scoprire, nello smascheramento costante, di essere stati fin qui accecati, abbagliati da una vile sovraesposizione rappresentazionale e desertificata.

Di cosa parla la scrittura? Grazie a Dio, essa non parla! La pittura si rende nel delirio di un disertore.

La raffigurazione differita è un fenomeno peraltro molto raro poiché, in gran parte dei testi artistici, c’è sempre qualche allusione a un contenuto semantico – non traducibile, beninteso, nella lingua pratica. Benché la pittura abbia tutti i diritti di rendersi come rarità, tuttavia, il lettore-ascoltatore si pone nei suoi confronti senza mai rinunciare completamente alla rappresentazione e alle rappresentazioni semantiche dalle movenze declamatorie (mandati sociali, strofette e filastrocche di propaganda per la classe egemone). Dal momento che i visitatori incagliati hanno pian piano incominciato a sussurrare difronte ai dipinti, il loro occhio disabituato viene colpito da una incessante sollecitudine.

Capace di contagiare il lettore con sentimenti inutili alla classe dominante e alla causa ideologica, la più artistica di tutte le arti, l’arte che sa scrivere meglio, è la pittura.

Proprio per questo, i capolavori si scrivono sempre in una specie di lingua straniera, sicché le teorie antifunzionalistiche della scrittura non devono preoccuparsi di essere smentite dalla cosiddetta “arte impegnata”, dall’arte ridotta a descrizione plastica – in cui le forme possiedono la loro dimora –, omologate a ogni attività destinata socialmente a facilitare rapporti fra genti della medesima razza, dall’arte ingaggiata a rappresentare e informare, dall’arte assegnata alle missioni di rinnovamento del mondo. La scrittura vuol rendersi, così, totale rigenerazione infunzionale e si contrappone ad ogni ragione utilitaristica, che appare finalmente come sovrastruttura falsificante e vile processo di occultamento.

L’ideologia fenomenica del “visibile”, praticata convenientemente in funzione dell’“utile”, si rivela solo come mera sezione del mondo, un misero possesso di mondo – il mondo caratterizzato dall’infinita varietà dei suoi segni, irriducibili alla loro composizione in formule, in termini, in discorsi, in cui tutto figura sotto un nome. E se l’uomo s’accontenta di soddisfare il bisogno pratico d’occasione, un bisogno pratico di cui, spesso, è abitualmente prigioniero, per l’artista invece è difficile poter accettare così com’è l’ostilità che continuamente gli propone il mondo degli oggetti, uno stato di ostilità insopportabile che lo muove verso la liberazione.

Lo stato delle cose si mostra particolarmente ostile alla ricerca autentica, spregiudicata, preferendovi, al contrario, la sussunzione dell’individuo sotto l’imposizione di una (e sola) idea di lavoro, un lavoro dal quale non può scaturire alcun godimento intellettuale, di cui sono invece capaci di artisti portati dal talento a una visione eccedente. In questo senso, solamente l’arte trascende l’ideologica della realtà, rinunciando alle false certezze di un mondo rivestito di ragione pratica che alletta con le sue forme di sicurezza e comodità.

Abbandonare il lavoro reificato, i committenti-datori! Basta lavorare in sarcofagi di cemento armato e intendere l’attività artistica come svago intellettuale per brevi periodi di riposo, rinfracante e che permette di tornare al lovoro freschi e riposati.

Il lavoro creativo, inventivo, innovativo, di cui solo l’essere umano è capace, è ridotto oggi ad un’attività, spiacevole e gravosa, attraente soltanto per il suo effetto-salario. L’artista ha il privilegio di non lavorare contro un salario. Scambiare il valore incommensurabile del lavoro contro un salario è un’arte mercenaria. L’attività artistica sa anche come poter utilizzare l’arte mercantile – l’arte a buon mercato, per intenderci –, senza peraltro praticarla e senza implicarvisi. Contro la vergognosa routine di mestieranti che fabbricano opere confezionate, l’arte gioca e non si riduce a mestiere. In un mondo sempre più saturo di senso e finalità, l’attività artistica è gioco del fantasticare, sembra non avere altro fine se non il gioco, di essere quindi un’attività che piace per se stessa. Che deve farsene dell’arte un uomo veramente razionale? I mestieranti non hanno arte: in arte non è sufficiente sapere per saper fare. Messo lì da mani rese lisce dalle monete, “l’uomo di mestiere non gioca”! (J. Derrida).

Al circolo economico del commercio (offerta-domanda), dalla linea affaristica, aziendale e artigianale, l’arte della scrittura viene espropriata tramite compiti e metodi, che impongono un’arte limitata all’affermazione che l’opera debba avere una forma e un contenuto – spesso suggerito da fuori!

Al limite dell’opera, nello spessore parergonale della cornice, l’unico artista che resisterà creando sarà colui che, alla morte annunciata del mondo, sapendo bene come rinventarlo, disegnerà nuove con-figurazioni spostando senza misura la riflessione artistica un tratto più in là rispetto a questo mondo qui.

 

L.P.

Lecce-Bari-Bologna, 2006

 

differimento.altervista.org - All Artworks by Luciano Ponzio 1999-2006 - All Rights Reserved - Use by Permission Only